L’entrata in vigore del nuovo divieto di viaggio imposto dagli Stati Uniti a 12 Paesi, tra cui il Myanmar, ha colpito duramente la più numerosa comunità birmana d’America, concentrata in California e nel Midwest. Il provvedimento, firmato dal presidente Donald Trump il 9 giugno, vieta l’ingresso a cittadini birmani per motivi turistici, di studio e di ricongiungimento familiare. A Fort Wayne, Indiana – dove risiede la più grande diaspora birmana del Paese – centinaia di famiglie si sono radunate davanti al municipio per protestare pacificamente. “Mia madre ha ottenuto il visto dopo anni di attesa, ma ora non può più venire. È devastante”, racconta Aye Thandar, rifugiata arrivata nel 2010. Il decreto, giustificato dalla Casa Bianca come misura per “proteggere la sicurezza nazionale”, ha suscitato forti critiche da parte di attivisti e giuristi, che lo considerano discriminatorio e lesivo dei diritti umani. Secondo l’Ong Human Rights First, il Myanmar è stato incluso per via dell’instabilità politica e della presenza di gruppi armati, ma “la misura punisce civili innocenti e rifugiati in cerca di protezione”. Le conseguenze sono già tangibili: visti annullati, domande di asilo bloccate e famiglie divise. Le università americane hanno segnalato la cancellazione di numerose iscrizioni da parte di studenti birmani, mentre le ambasciate statunitensi in Asia sono state sommerse da richieste di chiarimento. Il senatore democratico Alex Padilla ha definito il travel ban “una ferita aperta per le comunità immigrate”, chiedendo al Congresso di intervenire. Intanto, la comunità birmana americana – che conta oltre 200.000 persone – si mobilita con petizioni, campagne social e supporto legale per chi rischia di perdere tutto
