I fatti sono fin troppo noti, ma vale la pena riassumerli prima di spiegare le ragioni che mi spingono a qualche scomoda riflessione rispetto alla sentenza numero 841 del 9 maggio u.s., pubblicata nello stesso giorno dalla cancelleria del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria.
Quella sentenza – resa su ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri – ha annullato l’Ordinanza n.37 dello scorso 29 aprile, nella parte in cui il Presidente di quella Regione aveva autorizzato il riavvio delle attività di bar, pasticcerie e altri pubblici esercizi “attraverso il servizio con tavoli all’aperto “.
Non avendo a disposizione lo spazio necessario per illustrare criticamente i diversi profili che possano aver indotto quel Tribunale ad assumere le funzioni di Giudice Costituzionale – quale autorità giudiziaria deputata a risolvere i conflitti di attribuzione tra lo Stato le regioni – mi limito a richiamare l’attenzione del lettore sulle 5 pagine (delle 37 di cui la Sentenza si compone) spese per argomentare le ragioni in base alle quali è stata pure dichiarata la manifesta infondatezza della domanda di rimessione alla Corte Costituzionale delle norme-parametro (contenute nell’art.2, comma 1 e nell’art.3, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 20 20, n. 19) che l’Avvocatura erariale ha assunto essere state violate e sulla cui conformità alle disposizioni costituzionali degli articoli 117 e 118 (solo per citarne alcune) la difesa della Regione aveva espressamente chiesto la sottoposizione allo scrutinio del Giudice delle leggi..
Oggetto del giudizio non erano d’altronde – né avrebbero potuto esserlo – le disposizioni contenute in quelle norme, quanto piuttosto il Decreto dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri del 26 aprile u.s. che – ritenendo quella misura necessaria a contrastare la diffusione del virus – aveva limitato le modalità di somministrazione di alimenti e bevande al solo asporto, così implicitamente escludendo che potessero essere consumate nei locali dell’esercizio presso il quale potevano (di nuovo) essere acquistate.
Ad avviso del giudice amministrativo, però, la mancata impugnazione di tale ultimo Decreto da parte della Regione lo avrebbe reso immune da qualunque utile censura o controdeduzione nel giudizio instaurato di fronte a lui dal Presidente del Consiglio dei Ministri: questo ragionamento non sembra fare una piega, almeno da un punto di vista formale, ma – sotto un profilo sostanziale – potrebbe addirittura rappresentare una forma di denegata giustizia, perché quello stesso giudice non ha creduto di dover dare rilievo alla circostanza per cui – almeno alla data di presentazione del ricorso – erano ancora aperti i termini per l’impugnazione del Decreto stesso da parte del Presidente della giunta regionale della Calabria, ovvero di altra regione.
Neanche potrebbe considerarsi di poco conto la circostanza a termini della quale il DPCM di cui il Tar sottolineava la mancata impugnazione non era ancora divenuta inoppugnabile, perché tuttora pendono i termini della sua impugnazione e ben avrebbe allora potuto quel giudice fissare un termine (magari brevissimo) entro il quale la regione avrebbe dovuto impugnare il Decreto di fronte al competente Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio.
Ma il punto più problematico della sentenza in commento non è neanche quello appena indicato, quanto piuttosto l’aver inteso, in evidente travisamento dei fatti di causa – rilevante anche al fine di viziare la declaratoria di manifesta infondatezza della domanda di rimessione alla Corte Costituzionale del Decreto Legge n.19, quale atto normativo primario in precedenza richiamato – l’ordinanza della regione Calabria come viziata per violazione del principio di leale collaborazione con il Governo centrale perché “ nel caso di specie, non risulta che l’emanazione dell’ordinanza oggetto di impugnativa sia stata preceduta da qualsivoglia forma di intesa, consultazione o anche solo informazione nei confronti del Governo.”
Così ragionando, il Giudice ha fatto mostra di dimenticare come l’ordinanza regionale impugnata fosse stata oggetto di accese discussioni non solo nelle sedi istituzionali, ma anche fra mezzi di comunicazione di massa che avevano dedicato alla questione numerosi commenti di esperti o sedicenti tali.
D’altronde, la semplice violazione di quest’ultimo principio, non potrebbe mai essere intesa come condizione necessaria e sufficiente per alterare il giuoco delle competenze ripartite fra Stato e regioni e dunque per far ritenere manifestamente infondata una domanda di rimessione alla Corte Costituzionale quale unico giudice competente a conoscere una fattispecie di straripamento di potere da parte dello Stato, ovvero da parte di una regione.
La mia critica all’accaduto si ferma qui e non solo per ragioni di spazio.
Mi auguro però che la regione Calabria voglia impugnare la sentenza innanzi al Consiglio di Stato, insistendo sulla domanda incidentale di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.
Prima ancora però quella stessa Regione dovrà al più presto impugnare di fronte al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio le richiamate norme del DPCM che l’hanno privata delle proprie competenze in materia di somministrazione di alimenti e bevande.
Poco importa infatti che le sentenze sui relativi giudizi interverranno, probabilmente, quando la questione della somministrazione “a tavolino“ si sarà risolta da sé; perchè l’attualità dell’interesse della Calabria e delle altre regioni ad ottenere pronunciamenti giudiziali sui limiti del potere centrale nell’invasione delle loro competenze resterà di attualità almeno fino al momento in cui non si decida che il modello italiano di Stato regionale possa essere superato in nome delle emergenze e che il relativo superamento avvenga a prescindere da qualunque indagine sulla proporzionalità delle misure adottate rispetto all’obiettivo da raggiungere.
Fortunatamente, una simile decisione non potrebbe mai essere assunta dal Governo, investendo innanzitutto il potere legislativo del Parlamento, per di più attraverso il procedimento rafforzato di revisione della nostra Costituzione.
La sentenza appena commentata potrebbe così rappresentare un’avvisaglia di un simile, non desiderabile, accadimento: ci si muova allora finché si è in tempo, confidando nella saggezza della Corte Costituzionale quale giudice dei conflitti di attribuzione fra i poteri che compongono lo Stato-ordinamento: quale risulta dal disegno che ne fu tracciato – unitamente alla forma repubblicana – per evitare che si ripetessero le tristi esperienze che avevano portato al popolo italiano più lutti e più sofferenze di quelle oggi attribuite al Covid-19.