Il lavoro è anche e, soprattutto, “comunità”. E’ questa la conclusione a cui è giunto l’ultimo “Randstad workmonitor” realizzato in 35 Paesi, tra 26.800 persone, di cui 750 in Italia. E’ emersa in pratica l’importanza data al senso di collettività per stare bene al lavoro. E, quindi, produrre anche di più e meglio. I benefici della socialità, della fiducia e del senso di appartenenza sul posto di lavoro, infatti, sono in grado di migliorare performance e benessere e possono essere la vera marcia in più per le persone e per l’organizzazione del lavoro.
In questo rapporto si conferma che gli strumenti tecnologici non possono sostituire le persone. Ciò è confermato dall’89% degli intervistati dei lavoratori italiani, che dice di rendere di più se c’è un senso di collettività tra i colleghi; dall’88% che lavora meglio se “conosce” le persone che ha intorno; dall’87% che vorrebbe che il posto di lavoro fosse una comunità nell’ambito della quale non si è soli ma si fa pare di un insieme che aiuta a raggiungere risultati ottimali.
L’Enciclica del Papa
Ma guarda un po’ che scoperta hanno fatto questi ricercatori? Questo scriveva anni fa San Giovanni Paolo Secondo nella sua insuperabile Lettera enciclica “Centesimus Annus”, riprendendo il pensiero di Papa Leone XIII: …“L’integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso. L’azienda non può esser considerata solo come una “società di capitali”: essa, al tempo stesso, è una “società di persone”, di cui entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano con loro lavoro… “Mediante il suo lavoro infatti l’uomo s’impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri; ciascuno collabora al lavoro e al bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta. Egli, inoltre, collabora al lavoro degli altri, che operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende progressivamente”…
Il senso di comunità – continua il Rapporto – è importante anche per la salute mentale: a dirlo è l’89% delle persone, dunque il lavoro è qualcosa di più.
La dimensione sociale del lavoro
Anche qui assistiamo ad un’altra scoperta dell’acqua calda, perché è dal 1891 che la Dottrina Sociale della Chiesa lo afferma. Infatti, ricorda il Papa polacco: “la chiave di lettura del testo leoniano è la dignità del lavoro, che viene definito come “l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione”. Il pontefice qualifica il lavoro come “personale”, perché “la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi la esercita e al cui vantaggio fu data”. Il lavoro appartiene così alla vocazione di ogni persona; l’uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro. Nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione “sociale” per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune”.
Dallo stesso rapporto risulta ancora che il 76% dei lavoratori ha creato rapporti di amicizia con i colleghi, l’85% ha ricevuto dalla vita d’ufficio un aiuto anche nella vita personale. In effetti si vive più al lavoro che in famiglia. Non ci sono più confini cosi netti, tra tempi di lavoro e tempi liberi. Ed ormai è sempre più connessa la vita privata con quella lavorativa, perché il 90% degli italiani socializza con piacere con i colleghi, una percentuale che ci pone in quinta posizione su 35 Paesi analizzati. E il 72% sopratutto la Gen-Z, frequenta i compagni di lavoro anche fuori dall’azienda, allora le persone chiedono qualcosa di più al lavoro, tanto che nel caso in cui non si sentisse a suo agio, più della metà delle persone (il 57%) si dice pronta a lasciare l’attuale posto di lavoro.
Vivo il senso della collettività
Per costruire una comunità però occorre è la presenza fisica: l’84% dice che è più facile costruire relazioni con i colleghi sul posto di lavoro, piuttosto che da remoto ed il 79% per migliorare la produttività è necessario lavorare in ufficio. Addirittura, per il 71% andare in ufficio migliora l’equilibrio tra lavoro e vita privata. E la mancanza di flessibilità nell’orario di lavoro è la terza ragione (indicata dal 45% dei lavoratori) per rifiutare un lavoro. Gli italiani sembrano tra i più convinti che la relazione si costruisca dal vivo. Oggi la maggioranza (il 28%) lavora tutti i giorni in sede, il 12% fa un giorno alla settimana di smart working, il 19% due, il 6% tre, il 4% quattro e il 9% tutti i giorni.
E’ positivo ed è un vanto per noi sapere che l’importanza del senso di collettività è maggiore tra i lavoratori italiani rispetto al resto del mondo: l’Italia è infatti 4 punti sopra rispetto alla media globale e 5 in più rispetto all’Europa.
Come si può agevolmente constatare in questi ultimi tempi verità lapalissiane, ormai acquisite da oltre un secolo dalla riflessione della Dottrina Sociale cattolica, vengono presentate dai nuovi cultori ed esperti di scienze sociali come recenti e geniali acquisizioni delle più moderne tecniche di studi e di indagini. Insomma si spacciano per vere e proprie novità quello che la saggezza della Chiesa ci va ripetendo da secoli.
Questa recente indagine, dunque, non fa altro che confermare quello che gli imprenditori ed i dirigenti dell’UCID vanno proclamando, affermando e praticando da sempre.