Il 1°maggio 2020 lo abbiamo trascorso in pieno lock-down con alle spalle due mesi di paralisi produttiva, occupazionale, sociale, relazionale. Il buon funzionamento di servizi pubblici essenziali (sanità, energia, acqua, rifiuti, …) ha contribuito a mitigare gli effetti della pandemia prodotta dal Covid-19.
È una esperienza da non dimenticare e di cui fare tesoro e memoria. Ci ricorda quanto il lavoro sia una componente essenziale per la piena realizzazione della persona, di ogni singolo individuo e per l’intera collettività: nel lavoro trovano compimento capacità e talenti personali; attraverso il lavoro svolgiamo un servizio alla collettività e ne promuoviamo lo sviluppo.
Arriviamo a vivere questa esperienza unica con il carico delle precedenti: la nostra generazione, quella che oggi ha più di cinquanta anni, è cresciuta osservando per strada ed interiorizzando ricordi, anche di lunga data, osservando, lungo le vie delle nostre case, quartieri e centri abitati, tante arti e professioni, passando anche interi pomeriggi solo osservando ed ascoltando: una officina, una falegnameria, un cantiere, un forno, etc.. Oggetti informi prendevano consistenza dopo ore di lavoro; l’ambiente intorno a noi mutava aspetto; gli oggetti rotti tornavano a funzionare dopo ore di tentativi mal riusciti.
In tutte le attività umane c’era un fattore comune: l’incedere lento ed il fare meticoloso per un risultato concreto ed apprezzabile.
Con il tempo questa scuola di vita quotidiana è andata un po’ perduta: indubbiamente sorpassata da diverse, e più generalizzate, opportunità. Senza alcuna nostalgia per il passato, sembra essersi smarrita lungo la via quella sapienza e quell’ingegno che si nascondeva anche nel lavoro manuale di un tempo.
Uscendo dal lock-down serve guardare al futuro e mettere le basi per un recupero di un’arte, pur nel mutare del modo di lavorare e dei lavori stessi: il lavoro continua ad essere ed esprimere la realizzazione personale e lo strumento di esercizio delle proprie capacità; nel lavoro la collettività continuerà a trovare lo strumento per lo sviluppo.
Non di meno c’è da recuperare un aspetto del nostro passato prossimo che via via si è andato smarrendo: l’arte del fare, del lavoro manuale, concreto e utile al prossimo e, quindi, alla società.
Dovremo rivedere immediatamente (e non solo per ragioni di innovazione tecnologica e della rivoluzione digitale) i modelli organizzativi della PA, del mondo del lavoro industriale, dei servizi, delle stesse organizzazioni rappresentative.
Il rapporto tra lavoro e territorio sarà comunque un fattore chiave e distintivo: sia esso il territorio europeo, nazionale, regionale o comunale. Questo rapporto con lo spazio concreto ci fa capire che anche il risultato deve essere concreto: può forse in qualche misura risultare indifferente il luogo da cui si lavora (smart working), ma è evidente che il buon lavoro produce un effetto in un tempo ed in un luogo preciso. Il che ci riporta all’esigenza (o virtù) del fare: un servizio per un risultato concreto ed apprezzabile che respinge modelli assistenziali che non siano legati alla garanzia della dignità della persona.
Necessita una fase di riflessione per l’attuale classe dirigente chiamata ad una analisi critica in chiave costruttiva, domandandosi: cosa abbiamo costruito come generazione e cosa lasciamo alle nuove generazioni; quale è l’asset culturale che viene dato; il lascito? Anche il pio Enea, nel portare sulle spalle il padre Anchise, ha portato, con lui, in eredità, un pezzo della civiltà dei padri nella nuova comunità.
La società nel frattempo è cambiata. Gli insegnamenti dei processi organizzativi e produttivi sono altrettanto mutati. Si presenta una complessa sfida per lo sviluppo di modelli manageriali ed industriali che riprendano il lascito di esperienze gloriose come quella di Olivetti guardando ad un modello di sviluppo globale capace di assicurare la sostenibilità sociale ed ecologica. Alcuni tentativi in corso, lasciano ben sperare.
È evidente che c’è la necessità di reinterpretare un bisogno formativo individuale e collettivo per promuovere le capacità personali per un servizio alla collettività: un compito che richiama alla responsabilità il sistema produttivo e le sue classi dirigenti con un nuovo balance tra impresa, lavoro e società.
Il cambiamento è in atto e ogni inerzia genera una conseguenza inattesa: ripensare l’esercizio delle funzioni pubbliche; fare amministrazione; fare economia; fare impresa; fare infrastrutture; fare istruzione; fare politica; fare sanità; fare socialità; fare … non rinviare.
Non è un caso che nella lingua inglese e nel pragmatismo che la contraddistingue c’è un verbo che fa la differenza: to do. Un equilibrio dinamico con la realtà, da non confondere però con l’efficientismo del perenne movimento, ma da associare al fare concreto per un risultato apprezzabile nel tempo e nello spazio mediante la percezione di un effetto positivo condiviso nella vita quotidiana di ciascuno e di tutti insieme.
Una saggezza del fare da recuperare e promuovere, in particolare, nel mondo dei servizi al cittadino: per portare il trasporto ferroviario regionale su una dimensione di qualità, viste le emergenze; per offrire alle persone una mobilità integrata nelle città e territori extraurbani con minor impatto sull’ambiente; per tutelare i bacini ed i corpi idrici; per raggiungere standard di depurazione delle acque e tutela dei mari; per tutelare la qualità dell’ambiente con sistemi avanzati di trattamento e recupero di materie seconde dai rifiuti; per promuovere lo sviluppo delle energie rinnovabili e di sistemi energetici efficienti.
Senza un rapido recupero del senso del fare in ogni settore, il rischio è, per uscire dallo stallo economico creato dal covid-19 anche in Italia, l’utilizzo delle scarse risorse economiche nel breve periodo con un innalzamento del debito pubblico, un successivo inasprimento della pressione fiscale ed una lunga depressione. Non si tratta di attendere che passi la nottata ma di attraversare un freddo inverno uscendone rafforzati.
Una sfida vitale per il mondo delle Utilities, a cui viene chiesto uno sforzo senza precedenti per sviluppare le economie territoriali e favorire la tenuta di una coesione sociale messa in crisi dall’attuale emergenza sanitaria ed economica.
Per usare le parole del Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, nella relazione di sintesi su “L’attività della Corte Costituzionale nel 2019” urge un «sovrappiù di responsabilità» e una «leale collaborazione» – il risvolto istituzionale della solidarietà – (…) affinché l’azione e le energie di tutta la comunità nazionale convergano verso un unico, condiviso obiettivo.”: il futuro delle generazioni che ci seguono, quella dei nostri figli e nipoti in un rinnovato patto generazionale.