L’ottobre appena trascorso è stato dominato dalle polemiche tra l’esecutivo e la magistratura, nate attorno a due decisioni giurisdizionali.
La prima è della Sezione per i diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma che, con decreti del 18 ottobre, non ha convalidato il provvedimento di trattenimento nei confronti di dodici migranti nel centro italiano di permanenza per il rimpatrio di Gjader, in Albania, disponendo il loro rientro in Italia, da persone libere.
Da qui l’immediata reazione del Governo che, col decreto legge23 ottobre 2024, n. 158, ha introdotto disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale ed ha stabilito – con una fonte primaria quale il decreto Legge – una lista dei paesi di origine cosiddetti “sicuri”(anticipando l’UE, che non ha mai adottato un simile provvedimento; esistono “liste” di paesi sicuri in convenzioni internazionali, ma non hanno, giuridicamente, un valore oggettivo e generale ed impegnano solo i firmatari).
Neppure il tempo che il decreto legge venisse pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e già il Tribunale di Bologna, Sezione Immigrazione, rinviava alla Corte di Giustizia UE il caso di un cittadino del Bangladesh (inserito nel DL come paese sicuro) che aveva richiesto la protezione internazionale, ponendo il quesito se dovesse prevalere la normativa statuale o comunitaria.
Si deve notare, per meglio comprendere i due provvedimenti giurisdizionali, che gli stessi derivano dalla sentenza 4 ottobre 2024 con cui la Corte di giustizia UE aveva ribadito il controllo della giurisdizione sulle decisioni amministrative, precisando alcuni criteri da tenere presenti nella definizione di “paese sicuro”.
Sullo sfondo di tutto ciò la vicenda dell’imputazione del Ministro Salvini, che, per quanto risalente ad alcuni anni addietro (il blocco dei 147 profughi sulla nave “Open Arms” è dell’agosto 2019, governo Conte), si era ripresa la scena politica italiana. È bastato che il P.M., lo scorso settembre, concludesse la sua requisitoria con la prevedibilissima richiesta di sei anni di reclusione.
Da tale incredibile pot-pourri una serie di reazioni scomposte, per lo più determinate dalla collocazione politica o dall’essere parte del potere giurisdizionale.
Così che, come era logico, nessun aiuto dai politici per una comprensione o una risoluzione del problema, che non si limita alla possibilità di condanna del Ministro Salvini o del rimpatrio di dodici migranti, ma che pone un problema più generale, che sarebbe opportuno, invece, affrontare proprio in sede politica: e l’affaire Salvini potrebbe offrirne l’occasione.
Non mi riferisco tanto al problema dei migranti che è difficilmente risolvibile per legge, quanto al rapporto tra potere esecutivo e potere giurisdizionale, che le vicende narrate hanno messo in crisi.
La contrapposizione che ne è derivata si è trasformata in un dibattito politico, spesso basato su paradossi (il Ministro Salvini non è un difensore dei confini della patria; ma neppure un adepto dell’anonima sequestri), in cui perfino il potere giurisdizionale (ma il giudice una volta non parlava soltanto con le sentenze?) è un contraddittore.
Così l’ANM ha ricordato vivacemente la ripartizione dei poteri, lamentandosi per le dichiarazioni governative e dell’invasione di campo da parte del potere esecutivo non ammissibili in uno Stato di diritto; ma che non dovrebbero sussistere neppure da parte del potere giurisdizionale, che, invece, interviene e sostanzialmente “blocca” o rende innocua ogni riforma che lo riguarda).
E non dovrebbero sussistere perché il potere esecutivo si dovrebbe inchinare davanti all’autonomia del giudice: proprio perché il “giudice a Berlino” (o all’Aia o a Roma), perché lo Stato sia “di diritto”, per garantire all’individuo, al cittadino, tutte le tutele e garanzie giuridiche deve essere terzo ed equidistante tra Stato ed individuo. Il giudice, in buona sostanza, è l’unico baluardo perché il potere politico non possa prevaricare le persone e assicurare che un individuo imputato anche delle peggiori nefandezze venga giudicato imparzialmente e senza pregiudizi o presunzioni, se non quella della sua innocenza. Un giudice, insomma, che non sia“servo dello Stato”: sia perché se lo Stato avesse “servi” si sarebbe in una dittatura, sia perché nessun “servo” può dirsi autonomo.
Sennonché proprio l’ANM è spesso autrice di invasioni di campo anche più potenti di quella, per la verità spuntata, di alcuni membri del governo.
La protesta dei magistrati ed il loro efficace mettersi di traverso ogni volta il Parlamento proponga una legge in materia di giustizia ha finora, impedito ogni reale riforma: essendo dei palliativi spuntati le modifiche alla Giustizia che il legislatore è riuscito ad approvare.
Il giudice, l’ho scritto decine di volte in questa rubrica, applica la legge che il legislatore gli dà.
Sarebbe forse il momento che il potere legislativo riaffermasse il suo primato: ma il Parlamento è imbrigliato, come tutto il Paese, in pastrocchi burocratici e, politicamente, il partito dei giustizialisti e di chi vede la magistratura come mezzo di repressione (non lo è) è sempre forte e gli sta bene che le cose rimangano così.
Ma solo la riaffermazione del potere legislativo garantirebbe un equilibrio tra poteri, che dal 1992 è andato smarrito.