venerdì, 28 Giugno, 2024
Politica

L’impresentabile proscrizione

Conoscete qualcuno di questi sette signori: Agostino D’Angelo (FI), Marco Falcone (FI), Alberico Gambino (FdI), Filomena Greco (Stati Uniti d’Europa), Luigi Grillo (FI), Antonio Mazzei (Pd), Giuseppe Milazzo (FdI)? Fino alla settimana scorsa non li avevo neppure mai sentiti nominare, come credo la stragrande maggioranza dei lettori. Si tratta di sette cittadini italiani, cui lo Stato riconosce pienezza dei diritti elettorali attivi e passivi, che hanno proposto la loro candidatura alle prossime elezioni europee. In formazioni politiche, c’è da notare, che vanno da Fratelli d’Italia al Partito Democratico.

Si tratta, però, anche di cittadini che lo stesso Stato – senza arrivare a negare i loro diritti elettorali (non sussiste alcuna ragione giuridica per poterlo fare) – addita all’opinione pubblica come “impresentabili”: esponendoli così in una lista dí proscrizione che mi pare inconciliabile con i principi democratici e di uno Stato di diritto. In effetti (nonostante l’età ho qualche reminiscenza storica) le prime liste di proscrizione le promulgò Cornelio Silla: significativamente non appena da Console democraticamente nominato, assurse alla carica di Dittatore…

Problema che, purtroppo, non si limita ai diritti di elettorato passivo (cioè, al diritto di candidarsi e di essere votato), ma che investono sempre più spesso la pienezza dei diritti di elettorato attivo.

Cioè del diritto-dovere sancito dall’art. 48 della Costituzione, attraverso cui il Popolo esercita la sua sovranità: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico… Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

La nostra Repubblica democratica, nel suo primo mezzo secolo di vita ha rimosso molte limitazioni all’esercizio del diritto di voto. A parte ammettere fin da subito (e finalmente!) le donne al voto, via via si è avuta l’abrogazione di divieti connessi a fallimenti, handicap (i sordomuti non potevano votare!), inabilità civile.

La legge sul punto è rigorosa: non possono votare (art. 2, dPR n. 223/1967) solamente i soggetti sottoposti a particolari misure di prevenzione personale, fino al loro permanere; chi con la condanna penale sia stato interdetto dai pubblici uffici perpetuamente; o anche solo temporaneamente, ovviamente nel periodo in cui l’interdizione è operante.

È pienamente titolare dei diritti elettorali attivi e passivi chi abbia scontato una condanna penale o anche chi sia sottoposto a procedimento penale non ancora concluso: non è mai ultroneo ricordare che si è presunti innocenti fino a sentenza definitiva.

La legge, però, in maniera contraddittoria, prevede (all’art. 416-ter) anche elettori il cui voto – democraticamente valido – possa essere elemento costituivo del reato di voto di scambio.

Elettori, però che la legge stessa non ha ragione (né diritto, né potere) di escludere, e che solo a posteriori possono essere qualificati come “associati” alle mafie (concetto molto vago e dubbio).

Insomma: la lista elettorale include anche i mafiosi; il loro voto è valido, ma non può essere richiesto, almeno né direttamente, né indirettamente. Ma è dubbio come si stabilisca quale elettore debba dirsi mafioso.

Una contraddizione che va rimossa: o si è elettori con pienezza di diritti o non lo si è. La legge, insomma, non dovrebbe consentire l’accesso al voto a determinati soggetti. Ma questi andrebbero individuati preventivamente con prove certe e precisione chirurgica, ma non può limitare di fatto il diritto con presunzioni non formulabili che a posteriori.

Altrimenti nulla cambia, in un problema che già un mio avo collaterale (Roberto Marvasi, 1863-1955) ebbe a denunciare, dal suo esilio antifascista in Francia, nel suo “Malavita contro Malavita” (ed. ESIL): nel 1928, 96 anni fa, non nell’epoca dell’antimafia.

Riporto sul punto una mirabile sintesi di Antonio Orlando (su La Riviera, 3 maggio 2005): “Criminalità, dice Roberto Marvasi, che si chiami camorra o mafia, nelle regioni meridionali, prospera e prolifera grazie agli appoggi di cui gode negli ambienti della polizia, della magistratura e dell’amministrazione prefettizia. Lo scambio di favori tra malavitosi e funzionari statali è così sfacciato e così endemico che si è tentato perfino di impedire a ligi e fedeli ufficiali dei carabinieri, come il sunnominato Fabroni, di condurre le indagini. Il Socialismo italiano ha sempre sottovalutato queste problematiche ed ha volutamente chiuso gli occhi, con indifferente aria di sufficienza, di fronte a questo intreccio, considerandolo alla stregua di un fenomeno localistico, circoscritto e di sapore paesano e folkloristico. L’avvento della grande rivoluzione [fascista NdR] avrebbe spazzato via anche queste scorie borghesi, perciò, non era certo il caso di preoccuparsi se qualche malavitoso appoggiava questo o quel candidato liberale o giolittiano. Non si avvedevano, sembra dire Marvasi, che la camorra e la mafia sono un cancro che riesce ad installarsi facilmente nel cuore della pubblica amministrazione, convive perfettamente con gli apparati pubblici, se ne serve e corrode dal di dentro le strutture dello Stato”.

Un cancro, insomma, ancora da estirpare: ma, come detto, con precisione chirurgica, con prove inoppugnabili e non con improbabili e velleitarie liste di proscrizione: altrimenti qualcun altro ne riparlerà ancora tra altri 96 anni.

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