Questa pandemia ci ha messo di fronte a molte delle nostre debolezze e ha smontato l’immagine che abbiamo di noi stessi, come di esseri invincibili, perfetti, immersi in una civiltà superiore che guarda dall’alto in basso non solo il passato ma anche la natura e la materia.
Abbiamo scoperto che, mentre galoppiamo verso il futuro su una biga trascinata da cavalli focosi, come l’intelligenza artificiale e le biotecnologie, non disponiamo di sufficienti banalissime mascherine che avrebbero impedito al virus di diffondersi con una rapidità devastante, mietendo vittime e sconvolgendo le nostre vite quotidiane.
Le nostre economie sono bloccate con danni incalcolabili perché non abbiamo pensato a come poter far lavorare in sicurezza gran parte delle maestranze delle aziende in caso di epidemie, per non essere costretti a dover ricorrere ad un lock down totale. Sarebbe bastata qualche accortezza e la dotazione di mezzi di protezione individuale. Eppure gli scienziati, i futurologi e anche personaggi simbolo e imprenditori di successo come Bill Gates ci avevano messo sull’allerta da tempo, spiegandoci che l’assalto di virus sempre più feroci è molto più concreto, ricorrente e minaccioso di una guerra nucleare che non c’è mai stata.
Insomma paghiamo le conseguenze di una stupida superficialità pari alla nostra protervia.
E così adesso le nostre vite, d’un colpo, sono l’opposto di quello che erano fino a qualche giorno fa e lo saranno per un po’ di tempo. Due sono gli elementi esistenziali mutati: il ritmo e la vicinanza.
La nostra esistenza è sincronizzata con un metronomo impazzito che ci porta a fare tutto in fretta.
L’unità di misura psicologica del tempo è il click dei tasti del computer o del cellulare. Ci spostiamo sempre più rapidamente, con treni superveloci, aerei che in poco tempo ci portano ovunque a costi accessibili e automobili sempre più potenti, frenate solo dai limiti di velocità imposti per impedire il massacro di vite umane dovute agli incidenti. Anche il nostro muoverci a piedi subisce il ricatto della velocità con l’avvento dei monopattini elettrici.
L’altra dimensione della nostra esistenza che ci sembra irrinunciabile è il non essere mai soli e lo stare sempre insieme, non solo in comunità virtuali, ma fisicamente sempre più appiccicati gli uni agli altri in una vita lavorativa, ricreativa e sociale intensa che quasi sempre per necessità e qualche volta per scelta ci fa vivere sempre più dentro “insiemi umani” affollati.
Se nessun luogo è lontano, per via della facilità degli spostamenti, nessuna persona è distante per via dell’aumento della popolazione e della concentrazione della vita in grandi centri urbani o in luoghi di attrazione collettiva diffusi ovunque anche nelle piccole città.
Ed ecco che oggi, invece, siamo improvvisamente costretti a vivere una vita rallentata e distanziata.
È forse uno dei traumi più forti che questa pandemia ci lascerà come ricordo. Obbligati a restare a casa, non pensiamo affatto di aver perso la nostra libertà per il capriccio di un bizzarro dittatore che ci vuole reclusi: sappiamo benissimo che il blocco serve per non correre il pericolo di infettarci e di infettare gli altri rischiando la pelle.
Quel che ci pesa di più è la brusca frenata dei nostri ritmi di vita, il non poter far nulla in fretta e rapidamente, il dover fare la fila per fare la spesa stando distanti gli dagli altri e il dover essere distanti anche con le persone care.
Restare per qualche settimana in questa condizione di tempo frenato e di incontri non ravvicinati ci sconvolge ma ci può aiutare anche a rimettere ordine nella nostra dimensione del tempo e dello spazio sociale. Possiamo provare a capire che la frenesia della vita vissuta in fretta è controproducente: è una modalità che ci consuma e non ci mette in condizione di gustare quello che facciamo come se mangiassimo perennemente di corsa anche cibi prelibati.
Il recupero del controllo volontario del tempo per dominarlo, viverlo e assaporarlo diventa una lezione utilissima che possiamo trarre da questo periodo di blocco forzato. E a questa lezione possiamo aggiungere anche la ricerca di una profondità maggiore nella vicinanza con altre persone. Siamo estranei a tanta gente con cui siamo a stretto contatto fisico per motivi che non dipendono dalla nostra volontà; ma spesso siamo “esterni” anche rispetto a persone che scegliamo di frequentare e la cui ”corporeità” rimane un fatto epiteliale e non esistenziale.
La privazione forzata del contatto fisico in queste settimane ci farà apprezzare di più il calore di una vera stretta di mano, la trasmissione di affetto di un abbraccio o bacio sincero e l’immersione nell’universo corporeo delle persone che scegliamo di “toccare”.
Non è poca cosa.