Nel marasma generale di teorie, tra onnipresenti infettivologi e runners dell’ultima ora (probabilmente per qualcuno veramente l’ultima), dalla mia terrazza vedo una Roma immobile; lo smog sicuramente ha lasciato posto al coronavirus, in una specie di comodato d’uso speriamo il più breve possibile. Sento le autoambulanze e dalla mia finestra vedo alcune tende fuori dell’ospedale, un polo medico che fino a pochi mesi fa volevano chiudere per farci forse un bel centro commerciale. È cominciato tutto in un pronto soccorso? Un ragazzo, un atleta si sente male e si scatena tutto questo? La gente che era in quel pronto soccorso è diventata il più grande veicolo di contagio per il nord Italia? Incontro allora (virtualmente intendo) il Prof. Andrea Cardillo, docente universitario di patologia generale, medico di pronto soccorso e Presidente dell’associazione L. Iacobini, che da poco ha aperto un conto per l’acquisto di apparecchiature medicali per l’emergenza Covid 19, e che alla mia domanda sulle criticità attuali, fa chiarezza su alcune procedure di primo impatto per il contenimento del contagio:
I Pronto Soccorso sono stati dotati di tende, esterne ai locali Ospedalieri, con funzione di filtro, in modo da non contaminare il Pronto Soccorso ed i Reparti di degenza.
Il pretriage effettuato in tenda è stato molto utile per identificare precocemente i sospetti COVID 19, isolarli correttamente ed avviare i pazienti potenzialmente infetti ad un iter diagnostico e terapeutico dedicato e completamente separato dai normali percorsi assistenziali.
La criticità attuale è sicuramente la scarsità di dispositivi di protezione per gli operatori sanitari e anche se per adesso la situazione nel Lazio è controllata, aspettiamo a breve un picco di pazienti sintomatici, per i quali potrebbero essere insufficienti le risorse degli Ospedali ed è per questo che le Aziende Sanitarie stanno organizzando velocemente un aumento di posti letto dotati di ventilatori meccanici per la rianimazione, intubazione orotracheale e ventilazione non invasiva NIV.
Dobbiamo fare tesoro delle indicazioni fornite dalle Regioni in cui l’epidemia è già diffusa ai massimi livelli e non farci trovare impreparati, e in questo, onestamente, mi sembra che le Aziende Sanitarie stiano rispondendo bene, ma la popolazione deve aiutarci stando a casa e limitando il più possibile i contagi.
Ricordiamo che anche persone asintomatiche, quindi sane, possono essere dei trasportatori inconsapevoli del coronavirus e senza saperlo infettare parenti e amici, che potrebbero, al contrario, sviluppare la malattia in una forma molto grave.
Ritengo che l’Italia sia un grande paese, che offre il diritto alla salute e alle cure mediche a tutti indistintamente e questa è una grande conquista di civiltà. Il Pronto Soccorso è l’emblema di questa conquista, poiché da sempre, e non solo per il coronavirus, accoglie chiunque abbia bisogno di aiuto e offre, con tutti i suoi limiti, ad ogni paziente una risposta sanitaria vera e immediata.
Il Pronto Soccorso così come è organizzato in Italia e soprattutto nel Lazio, costituisce un valore sociale di fondamentale importanza e unico, rispetto ad altri paesi, per tipologia di cure, livello culturale dei medici, prestazioni erogate, che rende l’Italia il grande paese che tutti conosciamo, che garantisce cure mediche di alto livello a TUTTI e tende sempre una mano ai più deboli, ai pazienti fragili, a chiunque si presenti al Triage del Pronto Soccorso chiedendo aiuto !I cittadini devono essere consapevoli di questa realtà e di questa ricchezza, ma devono rispondere, in questo momento, dimostrando una grande responsabilità nell’evitare qualsiasi contatto che possa aumentare il rischio di contagio.
Continua la mia intervista e non mi lascio sfuggire di chiedere un’opinione al Professor Cardillo sulle misure messe in atto a Codogno e sulla loro tempestività:
Molti affermano che il contagio e la diffusione del virus sia legata al Pronto Soccorso e ad una presunta mancata diagnosi precoce di malattia. Ma cerchiamo di ricostruire bene i fatti: sembra che il paziente «caso 1» di 38 anni, quando si era presentato per la prima volta al Pronto Soccorso di Codogno, il giorno 18 febbraio senza presentare alcun criterio che avrebbe potuto indentificarlo come “caso sospetto” o “caso probabile” di infezione da Coronavirus secondo le indicazioni della circolare ministeriale del 27 gennaio 2020, sia stato sottoposto agli accertamenti del caso e ad una corretta terapia; tuttavia decideva di tornare a casa nonostante la proposta prudenziale di ricovero, cioè il paziente ha verosimilmente firmato la cartella con rifiuto al ricovero.
Successivamente, nella notte tra i giorni 18 e 19 febbraio, il «paziente 1» si era ripresentato al pronto soccorso dello stesso ospedale per un peggioramento dei sintomi: veniva quindi ricoverato nel reparto di medicina dove il peggioramento delle condizioni cliniche determinava l’intervento del rianimatore la mattina del 20 febbraio e il contestuale ricovero in rianimazione.
Ed è solo a questo punto — dopo che il giovane è stato visitato, in reparto di Medicina, da parenti, amici e molti medici — che parlando con la moglie, il rianimatore veniva informato di una cena, svoltasi a fine gennaio, alla quale avrebbe partecipato il “Caso 1” e dove era presente un amico rientrato dalla Cina.
Mi chiede se fosse possibile effettuare una diagnosi precoce ed isolare immediatamente il paziente sospetto? Ebbene col senno del poi la risposta è si… ma col senno del poi siamo tutti bravi!
Io visito in un turno di 12 ore in Pronto Soccorso almeno quaranta persone, di cui almeno cinque gravi (codici rossi), quindici moderatamente critici (codici gialli) e venti codici verdi (urgenze differibili) e prendo decisioni terapeutiche per ognuno di loro, rapidamente e in poco tempo… Una persona con le caratteristiche del paziente 1, io lo avrei dimesso con una terapia adeguata e avrei aspettato l’evoluzione dei sintomi, cosa che i colleghi di Codogno hanno onestamente fatto. Si poteva predisporre un isolamento forse, ma ripeto con il senno del poi, siamo tutti bravi….
Ringrazio il professore che, dopo un turno di dodici ore, ha avuto la bontà di esprimere la sua autorevole opinione e telefono al Dott. Gianmarco Conti, titolare di una farmacia impegnata come molte a gestire una situazione emergenziale imprevista e pericolosissima. Mi conferma che nel suo negozio, collocato in una posizione di confine tra il centro e l’inizio di una periferia sconfinata, le persone chiedono con compostezza e spavento, presidi sanitari difficilissimi da reperire cercando anche una parola di rassicurazione. Lui stesso, prosegue, ha difficoltà a reperire per lui e per i suoi dipendenti l’occorrente per agire in sicurezza. Stessa situazione la ritrovo nelle parole della Dott.ssa Milena Ballarelli, abituata a gestire centinaia di pazienti in provincia, alcuni poco informati altri in balia di notizie dei media confuse e sparse, che secondo il suo parere non arrivano dirette e precise.
È ora di chiudere tutto. Forse è passato già molto tempo. Focolai isolati al centro sud, incapacità totale di percepire il pericolo non soltanto da parte di qualche corridore della domenica, ma anche di intere sfere aziendali che non hanno delocalizzato i loro lavoratori: un insulto per il personale medico, le forze dell’ordine, i tanti infermieri che si contagiano ogni giorno. È giusto anche pensare che attorno a Whuan c’è stata una nazione intera con un miliardo di persone che hanno fatto da volano economico durante i tre mesi di quarantena mentre, chiudendo l’Italia, si andrebbe incontro ad un collasso finanziario senza precedenti. In questa maniera però si morirebbe ugualmente, senza neanche averci provato. Molti imprenditori, molti dirigenti, capi azienda, ancora oggi non tagliano i servizi superflui. I sindacati (dove ci sono) lottano per far capire la pericolosità della situazione. Lavorare da casa, provare a studiare da casa, inventare da casa. Non è un concetto difficile. Si arriverà ad avere impiegati contagiati per l’inefficienza, l’ottusità, e soprattutto per la non adeguatezza di qualcuno nel ricoprire certi ruoli strategici. L’Italia ha bisogno di visionari, imprenditori eroi, manager non soltanto attenti alle proprie stock option, ma proiettati verso un futuro di ricostruzione economica, fondato su nuove regole morali in un paese che dovrà adottare delle manovre espansive che facciano in modo che non crolli la fiducia delle imprese e anche delle famiglie. Ad ogni crisi si reagisce con nuovi mezzi che fanno storia e dovranno essere colonne portanti per il futuro. Sei mesi per riprendersi ma 20 giorni per smontare questo bastardo di virus, altrimenti molte persone saranno costrette ad andare in strada, non per una corsetta rigenerante, ma per cercare da mangiare. Basta un attimo per far diventare una corsa al contenimento del contagio, una guerra civile.
Moltissimi morti, con coronavirus o per coronavirus, ma sempre morti; persone a rischio, gli anziani. Dovrà arrivare il picco ma se nessuno prende decisioni drastiche, al limite della costituzionalità, il virus si replicherà come una fiction americana degli anni 80, senza fine. Fontana si lamenta dei pochi militari a disposizione. Il mio pensiero va a loro; uomini che magari sono stati in Iraq, in Afghanistan, ad insegnare comportamenti tecnici e tattici alle forze di sicurezza straniere, impegnati ora a fronteggiare qualche imbecille che va a passeggio, o qualche pendolare lavorativo suo malgrado non indifferibile. Si guarderanno negli occhi, stupefatti di una guerra che stiamo facendo contro noi stessi.