lunedì, 25 Novembre, 2024
Società

Saluti romani e ossequi alla Giustizia

Per un attimo, apprendendo la notizia che la Cassazione aveva stabilito che il saluto romano non fosse di per sé reato, mi ero illuso, lo scorso giovedì 18 gennaio, che per un qualche miracolo italiano la Giustizia si fosse adeguata al ritmo della vita.

Collegavo, come probabilmente molti altri ingenui cittadini, quella sentenza al clamore sollevato nei giorni prima da alcuni partiti di opposizione al Governo Meloni, per i plateali saluti romani del 7 gennaio in occasione dell’anniversario della strage di Acca Larenzia a Roma, nel 1978.

Appena un cenno alla denuncia dei partiti di governo, di strumentalizzazione dell’episodio; pare, infatti, che il saluto romano, in occasione di quella celebrazione, sia un rituale da sempre seguito e mai contestato, neppure dai gabinetti con guida a sinistra. Unica voce di dissenso, a sinistra, quella di Piero Sansonetti, che dichiarando che lui ancora saluta col pugno chiuso, non si è mostrato scandalizzato per il saluto romano: da tollerarsi per il contesto: «Sono un vecchio comunista. Talvolta saluto anche col pugno chiuso. Ma se ci sono due o trecento fascisti che vogliono ricordare l’uccisione di alcuni ragazzi fascisti avvenuta 46 anni fa, facendo il saluto fascista, che male c’è? Hanno commesso violenza? No. E allora?».

Ma torniamo alla sentenza di Cassazione; che, come immediatamente realizzato appena un attimo dopo la fallace impressione che vi ho riferito, è rispettosa delle peggiori tradizioni giuridiche italiane.

Si trattava, infatti, di un processo per fatti risalenti al 2016, otto anni addietro: un saluto col braccio teso da parte di otto militanti di destra nel corso di un’altra commemorazione. Sarà stato reato oppure no? No, per il giudice di primo grado che nel 2020 assolveva gli otto (criminali? complottisti? sciocchi? o solamente malcapitati?). Sí, per i giudici di appello che, invece, li condannava. La Cassazione ha accolto il ricorso degli imputati, ma non ha definito il giudizio. Ha rinviato ad altra sezione della Corte d’Appello perché vengano compiuti altri accertamenti (!) e stando alle notizie di stampa (la motivazione non è ancora nota) ha reso ancora più arduo per il cittadino comprendere se quel saluto si possa o non si possa fare. Sarebbe reato, insomma, se legato alla volontà di rifondare il partito nazionale fascista. Un altro caso, insomma, di un reato fumoso, di quelli (ce ne sono tanti, moltissimi; addirittura inestricabili e contraddittorie le ipotesi da cui derivano sanzioni amministrative) creati per non dare certezze al cittadino che non è mai consapevole se è in regola (e non mi riferisco al saluto romano, ma a mille casi della vita reale). Una situazione di incertezza particolarmente apprezzata dal potere, perché esso possa essere esercitato ad libitum (perdonatemi, ma mi piace ribadire un mio triste leit-motiv: in Italia tutto è vietato, tutto è tollerato, finché…).

Tanto vale, quindi, attendendo una giustizia che impieghi meno di un decennio anche per reati minori, girarla in satira, come fatto da Rosario Fiorello in Viva RaiDue di venerdì. Fiorello si è spiritosamente inventato che il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, si sarebbe slogato la spalla, avendo passata la notte di giovedì a fare il saluto romano, non più reato, davanti allo specchio.

Mentre scrivo mi sovviene un flebile ricordo dell’infanzia. Di qualcuno che parlando con mia Mamma, insofferente al saluto fascista, al sabato fascista ed a tutte le altre idiozie del genere del “regime” (cessato da 82 anni, notavo nel mio ultimo articolo!), le spiegava che il saluto romano era anche legato all’igiene.

In effetti – ragionavo sulla base di quel ricordo, collegandolo alla recente pandemia di Covid – il saluto romano è immediatamente successivo alla pandemia della “spagnola” del 1918-1920. Studiando, trovo conferma che le “camicie nere” lo adottarono durante l’epidemia e che lo usavano anche prima della marcia su Roma (ottobre 1922); il saluto romano poi divenne il saluto ufficiale nelle amministrazioni pubbliche italiane, solamente nel 1925 (e meno male, mi consolo, che il bruttissimo saluto col gomito dei governi Conte non abbia assunto alcun significato politico…).

Non trovo, però, traccia di ragioni igieniche, ma solamente riferimenti del Regime ad un uso dell’antica Roma: usanza che gli storici negano.

L’unico riferimento a norme igieniche è in un decreto del 1938 del PNF e in un sonetto dell’amato Trilussa, certamente non amico del regime (il poeta fu poi nominato senatore a vita dal Presidente Luigi Einaudi).

Ve lo riporto per cancellare con un sorriso l’incapacità della Giustizia, che comunque ossequio e che ci dirà con i suoi tempi il suo confuso pensiero:

La stretta de mano (TRILUSSA)

«Quela de da’ la mano a chissesia

nun è certo un’usanza troppo bella:

te po succede ch’hai da strigne quella

d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.

Deppiù la mano, asciutta o sudarella,

quanno ha toccato quarche porcheria,

contiè er bacillo d’una malatia

che t’entra in bocca e va nelle budella.

Invece, a salutà romanamente,

ce se guadagna un tanto co l’iggene

eppoi nun c’è pericolo de gnente.

Perché la mossa te viè a dì in sostanza:

– Semo amiconi… se volemo bene…

ma restamo a una debbita distanza.»

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