Col nome di peste sono passate diverse pandemie del passato storico dell’Europa di cui è rimasta traccia in letteratura. La più antica che si ricorda è quella di Atene verificatasi nell’anno.
La narrazione delle sue caratteristiche le troviamo nello storico greco Tucidide vissuto nel V secolo.
La riportiamo per intero.
“Quell’anno infatti, come si diceva unanimemente, si dava il caso che fosse proprio, tra tutti, particolarmente privo di malattie per quanto riguarda le altre infermità; ma se qualcuno anche era prima malato di qualcosa, in questo tutti i mali si trasformavano. Gli altri invece, senza nessun motivo, ma improvvisamente mentre erano sani, innanzitutto li coglievano vampate violente della testa e arrossamento e infiammazione degli occhi, e le parti interne, la faringe e la lingua, subito erano sanguinolente ed emettevano un alito strano e maleodorante; poi da quelle sopraggiungeva starnuto e raucedine, e in non molto tempo il malessere scendeva nel petto con forte tosse; e quando si localizzava nello stomaco, lo metteva in sconvolgimento e sopraggiungevano travasi di bile, tutti quelli che sono classificati dai medici, e oltretutto con grande sofferenza. E ai più capitava conato di vomito a vuoto che provocava spasmo violento, che ad alcuni dopo di ciò cessava, ad altri invece anche molto dopo. E il corpo esternamente per chi lo toccava non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, chiazzato da piccole vesciche ed ulcere; invece le parti interne bruciavano cosicché non sopportavano il contatto né delle vesti e coperte molto leggere né qualche altra cosa che (l’essere) nudi, e con molto piacere si sarebbero gettati nell’acqua fredda. E molti degli uomini, non sorvegliati, anche fecero questo nei pozzi, perseguitati dalla sete incessante; e nello stesso risultato si traduceva la bevanda più e meno abbondante. E l’impossibilità di stare tranquilli e l’insonnia incalzavano continuamente. E il corpo, per quanto tempo anche la malattia era al culmine, non si indeboliva, ma resisteva alla sofferenza contrariamente a ogni aspettativa, cosicché i più venivano uccisi o al nono giorno e al settimo giorno dall’arsura interna quando avevano ancora un po’ di energia, oppure, se erano sfuggiti, quando la malattia scendeva nel ventre e in quello sopraggiungeva una forte ulcerazione e contemporaneamente una violenta diarrea, i più in séguito a causa di quella morivano per la debolezza.
Passava infatti attraverso tutto il corpo il male che dapprima si era localizzato iniziando dall’alto nella testa, e se qualcuno fosse sopravvissuto ai mali più gravi, lo segnalava poi una menomazione delle sue estremità. Si accaniva infatti sulle parti genitali e sulle estremità delle mani e dei piedi, e molti sfuggivano privati di questi organi, ed alcuni anche degli occhi. E certuni li coglieva anche, subito dopo che si erano rialzati, dimenticanza di tutte le cose allo stesso modo, e non riconobbero se stessi e i familiari.
L’aspetto della malattia infatti, che si rivelò superiore a una descrizione, infieriva, tra l’altro, su ciascuno più violentemente che secondo la natura umana e in ciò dimostrò particolarmente di essere qualcosa di diverso rispetto a qualcuna delle malattie abituali; infatti gli uccelli e quadrupedi, quanti si cibano di uomini, pur essendoci molti insepolti o non si avvicinavano o, dopo averli assaggiati, morivano. E una prova di ciò: degli uccelli di tal genere ci fu un’evidente assenza e non si vedevano né altrove né presso nulla di tal genere; i cani invece offrivano di più la percezione di quello che accadeva per il (fatto di) vivere insieme”.