Per comprendere le ragioni per cui, da qualche anno a questa parte, il patto di stabilità è diventato oggetto di nutrite discussioni tra i paesi dell’area comunitaria, è necessario fare un passo indietro.
L’esigenza che il deficit di bilancio fosse contenuto entro limiti ben precisi, era sentita dalla UE come un’esigenza irrinunciabile: dall’UE furono previsti, invero, dei così detti meccanismi anticrisi (quali il MES) a favore degli stati in difficoltà ed, inoltre, fu anche molto sentita l’esigenza di contenere la possibilità dei paesi membri di avviare politiche di deficit speending, poiché esse venivano reputate espansive della domanda globale e, dunque, produttive di inflazione.
Questa intransigenza, come è noto, ha subito una notevole attenuazione a causa dell’emergenza COVID. La particolare situazione socio-economica, che si venne a creare in quel periodo indusse la Commissione ad attivare la clausola di salvaguardia, in virtù della quale i vari stati furono autorizzati ad elargire risorse, con la certezza che essi non avrebbero corso il rischio di incorrere in raccomandazioni correttive o sanzioni nell’eventualità di superamento del rapporto deficit/Pil o di un debito pubblico oltre il 60 per cento.
Orbene, terminata l’emergenza, entro l’anno in corso dovrebbe essere realizzata la riforma del patto di stabilità. Tuttavia, ancora non è stato raggiunto un accordo al riguardo, poiché se vi è concordia in ordine al fatto che occorra prevedere regole duttili, più dubbi esistono in ordine al recepimento dei principi richiamati dal Commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni, il quale ha ben messo in vista che i paesi dell’EU non hanno bisogno di regole di austerity, ma di regole che consentano una graduale riduzione del debito.
In buona sostanza, quel che i vari stati reclamano –e ciò si desume bene dalla dichiarazioni del Ministro Giorgietti- è una loro maggiore autonomia nella gestione del proprio bilancio e, dunque, regole comunitarie meno rigide in questa materia. Tali richieste servirebbero a restituire ai governi dei vari stati membri la possibilità di gestire una propria politica economica.
E’ ben noto, che l’UE ha sottratto agli stati membri una importante leva di gestione della politica economica, qual è appunto la politica monetaria: non è un caso, pertanto, che all’Unione è demandata la funzione di determinare il tasso di interesse.
Orbene, in tale contesto la richiesta di maggiore autonomia, da parte degli stati membri nella gestione del bilancio, ha un suo fondamento. Negli anni, che ci stanno alle spalle l’ Unione, per arginare le ricorrenti pressioni inflazionistiche, in un’ottica chiaramente monetarista, ha deflazionato l’economia, ricorrendo al continuo aumento del tasso di interessi. Ebbene in tale contesto, molti stati membri sono riusciti a scongiurare una deriva recessiva, proprio perché hanno avuto la possibilità di gestire la spesa pubblica in senso espansivo.