venerdì, 22 Novembre, 2024
Europa

Riforma della giustizia e nuovo Pnrr

Nell’approvare la nuova versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, gli uffici dell’Unione Europea hanno anche raccomandato al nostro Governo di procedere speditamente alla riforma di due settori che continuano lì ad essere considerati il ventre molle dell’Italia: la concorrenza e la giustizia. Ma se sono facilmente intuibili le ragioni del richiamo all’ammodernamento della legislazione sulla concorrenza, più complicata diventa invece la ricerca di quelle per le quali il nostro sistema giudiziario continua a rappresentare un motivo di rallentamento dello sviluppo economico anche per lo spazio unico europeo.

Rinviando ad altro momento la questione della riforma della concorrenza, ci occupiamo stavolta – nuovamente – della “questione giustizia”, esaminandola alla luce delle raccomandazioni ultimamente espresse dall’Unione Europea. Il primo elemento da prendere in considerazione è proprio quello del rilievo europeo dei problemi della giustizia italiana: rilievo fino a poco tempo fa addirittura negato da molti degli studiosi e degli operatori che si dedicano alla materia; brillano fra loro i magistrati di ogni ordine e grado, che hanno spesso accolto con malcelato fastidio ogni richiesta di rinvio pregiudiziale – all’esame della Corte del Lussemburgo, per conoscerne la compatibilità con i Trattati comunitari – delle norme nazionali che sembrino contrastare con i principi e con le regole di condotta vigenti in sede sovranazionale.

Non meno importante è però il rilievo dato dalla Commissione europea allo sviluppo dell’Ufficio del Processo, da intendere come l’apparato ausiliario dei giudici per consentire a questi ultimi di velocizzare le attività di rispettiva competenza, previo un approfondimento delle questioni loro sottoposte che permetta di raggiungere il duplice obiettivo di decisioni più veloci, ma anche più corrette dal punto di vista formale e sostanziale Almeno finora, le micro-burocrazie rappresentate da simili apparati sembrano esser state viste con diffidenza dagli stessi magistrati dei quali sono state messe a disposizione dalla Legge Cartabia (ovvero da un decisore politico estraneo al sistema autoreferenziale che continua a voler amministrare la giustizia italiana) e questo non deve meravigliarci perché – ormai da decenni – siamo stati abituati a concepire il sistema giudiziario come quella monade senza finestre di cui parlava Leibniz per indicare le entità indivisibili che non hanno bisogno di stimoli per interagire con il mondo esterno: al contrario gli apparati burocratici si frappongono, quasi per definizione, fra colui che decide e chi è destinatario di quella decisione, soprattutto al fine di evitare che il primo resti talmente solitario nell’esercizio del comando da non poter essere fermato, neanche quando le decisioni che da lui provengano possano esser frutto di abusi o, peggio, del delirio di potenza che talvolta accompagna l’esercizio solitario dell’autorità.

Il problema non è nuovo ed ha formato oggetto di attenzione anche da parte della letteratura: sia quella, raffinata, del Manzoni (leggasi la “Storia della Colonna Infame”), che quella, popolare, di Alexandre Dumas. Basti pensare alla figura del Procuratore Gerard De Villefort ne “Il Conte di Montecristo”: personaggio complesso, il cui comportamento può essere analizzato appunto come un esempio di quel “delirio di potenza” di cui si è detto prima. Villefort inizia la sua storia come quella di un giovane e ambizioso magistrato, la cui principale preoccupazione è avanzare nella carriera, anche a costo di compromessi morali. Il “delirio di potenza” di Villefort è evidente nella sua opera di manipolazione delle leggi a proprio vantaggio. Nonostante sia chiamato a quella carica come custode della giustizia, Villefort usa manipolare gli atti normativi – anziché nell’interesse pubblico – al solo fine di proteggere la sua posizione sociale e quella della propria famiglia. Questo approccio emerge chiaramente dalla sua decisione di imprigionare senza valido motivo Edmond Dantès – protagonista del romanzo – per nascondere i legami della sua famiglia con i Bonapartisti, considerati traditori nell’epoca post-napoleonica in cui si svolge il romanzo.

Villefort diventa così ossessionato dalla propria ascesa sociale e dal mantenimento del potere, ad evidente scapito della giustizia e della moralità. Questa ossessione lo conduce a prendere decisioni sempre più drastiche e crudeli, dimostrando un completo distacco dai principi etici che dovrebbero invece guidare il suo ruolo; quel comportamento riflette dunque una corruzione interna che va oltre la semplice ambizione, trasformandosi in una sete di potere che lo rende addirittura incapace di vedere le conseguenze delle sue azioni sulle vite altrui. Inoltre, il personaggio di Villefort sembra rappresentare la critica di Dumas alla società francese dell’epoca, che per molti versi ricorda anche quella italiana dei tempi nostri: con particolare riferimento alla corruzione e alla manipolazione delle istituzioni legali e politiche da parte di coloro che esercitano il potere senza che gliene derivino dirette responsabilità. La sua caduta finale, segnata dalla follia e dalla distruzione della famiglia, è un monito ai lettori sulle conseguenze dell’uso abnorme del potere assoluto e dell’abuso di autorità. In conclusione, Gerard De Villefort è un esempio di come il potere possa – in determinate situazioni – corrompere profondamente chi lo esercita senza controlli esterni, portando a un “delirio di potenza” che può compromettere l’integrità morale e la giustizia, con tragiche conseguenze per sé e per gli altri. La riforma a suo tempo annunciata dal ministro Nordio doveva servire proprio ad evitare il ripetersi di episodi come quello descritto da Dumas; ma qualcuno ha – probabilmente – deciso di fermargli la mano. Quel “qualcuno” non aveva però fatto i conti con il trasferimento di competenze a suo tempo effettuato dall’Italia in favore dell’Unione Europea e oggi i nodi stanno venendo al pettine! Ora però – altrettanto probabilmente – quei conti dovrà necessariamente farli.

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