Sull’onda dell’emozione per l’assassinio di Giulia Cecchettin – anzi del suo “femminicidio” perché si suppone essere avvenuto ad opera del suo ex fidanzato – si è scatenata sui media e sui social una giusta e profonda indignazione. Non vi faccio la cronaca di tutti gli interventi di istituzioni, autorità, politici (qualcuno per la verità sguaiato e fuor di luogo), né delle prese di posizione di associazioni e movimenti, femministi e no: un’occasione, comunque, che ha consentito di denunciare la violenza di genere come una “pandemia” che colpisce le donne in tutto il mondo e di fare derivare la violenza di questo genere dalla cultura patriarcale: spesso mi è parso – ma non vorrei apparire presuntuoso – senza avere una perfetta consapevolezza di ciò di cui si stava parlando. Il più grosso ed importante mutamento che la civiltà occidentale ha subito nella nostra sconvolgente contemporaneità è dato proprio dal differente ruolo della donna. Le due guerre mondiali dello scorso secolo sono state fondamentali per la sua emancipazione. Le famiglie con gli uomini al fronte sono state spesso guidate proprio dalle donne, che hanno svolto disinvoltamente il ruolo lavorativo e decisionale del capofamiglia. Il boom economico degli anni Sessanta, il ’68 e la pillola anticoncezionale (rivoluzione assoluta: libertà di amare non legata alla necessaria maternità) hanno fatto il resto.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha funzionato e funziona perché il legislatore (unico esempio che mi consta e credo di non sbagliarmi) non ha disegnato un modello da imporre alla società, ma ha preso atto di un fenomeno e di un concetto di “famiglia” già profondamente mutato e lo ha regolato legislativamente: la “dote” era un istituto scomparso ben prima del suo divieto (1975) ed il delitto d’onore ripugnava alla coscienza sociale già da alcuni decenni prima della sua abrogazione (1981). La donna, già nel 1975, aveva un ruolo preciso e differente rispetto al passato e, dietro una sua apparente subordinazione al marito, era spesso la dominatrice della famiglia: un modello matriarcale che ho sempre attribuito alla mia famiglia di origine, dove le decisioni fondamentali passavano dalla mia intelligentissima ed illuminata Mamma.
Che capii completamente solo quando, raccontando di come si fosse scandalizzata per una rappresentazione teatrale degli anni ’70, mi sentii rispondere dal suo cugino Professore Domenico Barillaro che la conosceva molto bene: «tua mamma urla allo scandalo, ma non si scandalizza di nulla», esaltandone così la sua grande forza. Ma anche quel pudore e quella modestia, quella non necessità di apparire emancipata, che oggi, nella nostra società di facciata, è al contrario un’esigenza irrinunciabile. Lo stesso Barillaro, Maestro troppo presto mancato (nel 1981 a 59 anni), ma in me vivissimo, discorrendo sulla ‘ndrangheta – il complesso irrisolto e forse irrisolvibile che ogni calabrese si porta appresso – mi disse, sorprendendomi: «è colpa del matriarcato che predomina in Calabria, senza di esso non esisterebbe». Sembrerebbe un paradosso, ma non lo è. Ne parleremo in altro contesto. Ciò che è certo è che patriarcato o matriarcato sono entrambi aberrazioni: un sano equilibrio è preferibile. Entrambi non originano violenza, ma dalla violenza sono condizionati, come avviene ogni volta che c’è un predominio. Nella mia magnogreca Locri Epizephiri vigeva il matriarcato: la leggenda narra delle donne nobili della Locride Greca, che durante la lunga guerra di Troia si erano unite agli schiavi, alla notizia della caduta della città di Ilio e dell’imminente rientro in patria degli sposi guerrieri, impaurite fuggirono. Fondando così l’antica Locri, con un assetto matriarcale.
Mito che riporta in primo piano la violenza e la paura: perché finanche duemila ottocento anni fa le donne greche, ancorché nobili, ebbero paura della violenza dei loro uomini. E di fronte alla violenza non c’è patriarcato o matriarcato che tenga. Ci può essere soltanto l’orgoglio e la consapevolezza di essere donna ed il superamento del senso di colpa del tradimento, dell’infamità, su cui si basa ogni potere violento: non si denuncia il mafioso per paura della sua reazione; non si denuncia il marito o compagno violento per lo stesso motivo. Il delitto Cecchettin ha dato molto corpo alle denunce. Le telefonate alla questura o ai numeri dedicati si sono decuplicate. Il pericolo, a lungo andare, è che un numero esagerato di denunce e di situazioni di pericolo difficilmente verificabili (il processo alle intenzioni è complicatissimo, spesso impossibile) ne determini l’inefficacia. Né a mio avviso può supplire l’ennesima legge frettolosamente approvata sull’onda emozionale, addirittura con un accordo tra maggioranza e opposizione. Così la legge di emergenza per la tutela delle donne vittime di violenza emanata il 23 novembre 2023, si limita ad inasprire pene e a rendere più forti i divieti. L’inasprimento delle pene – è un fatto storico – non ha mai eliminato o diminuito il reato. Maggiori divieti su pretese intenzioni sono un precedente pericoloso ed una soluzione di stato di polizia, non di diritto. Un rimedio apparente, insomma, come ogni legge d’emergenza emanata, che in Italia rende eterne ed immutabili le situazioni che si vogliono combattere, dichiarando guerre che non si possono vincere con quegli strumenti. Soluzioni apparenti sempre concentrate sulla repressione e punizione del fenomeno, mai affrontandone e risolvendo le sue cause profonde. Tommaso Marvasi