La settimana scorsa ho tentato di sottoporre ad un’analisi di tipo esegetico il testo di riforma costituzionale, approvato dal Consiglio dei Ministri ed adesso al vaglio delle Camere.
Tuttavia, alla luce delle critiche a cui è stato sottoposto il testo normativo in esame, sembra opportuno soffermarsi su una sua valutazione più approfondita. Le critiche più radicali provengono dalla sinistra ed esse si appuntano su un supposto svuotamento dei poteri del Presidente della Repubblica. La vicenda è singolare, poiché la sinistra ha sempre guardato con sospetto l’istituto del Presidente della Repubblica, temendo che esso potesse essere foriero di un trasformazione in senso presidenziale del nostro sistema istituzionale. Forse non tutti ricordano il clima di ripulsa, che si era diffuso, quando fu pubblicata la voce Capo dello Stato di Carlo Esposito, il quale rilevava che, in periodi di crisi, il Presidente della Repubblica potesse assumere un ruolo di tutto rilievo.
Detto questo iniziamo a valutare la normativa in esame: l’art. 3, nell’introdurre modifiche all’attuale art. 92 della Costituzione, prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. La medesima norma conferisce, poi, alla legge ordinaria la competenza a regolare il sistema elettorale delle Camere, secondo i principi di governabilità e rappresentatività in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55 per cento dei seggi. Va chiarito che il sistema istituzionale delineato dall’articolato in esame, sebbene preveda l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, non istituisce un sistema di presidenzialistico, visto che nel nostro caso permane la figura del Presidente della Repubblica.
La nota dolente della norma in esame, per alcuni partiti sta nel fatto che essa, nell’attribuire alla legge ordinaria la disciplina della legge elettorale, prevede che essa debba essere orientata in senso spiccatamente maggioritario. Vi è da chiedersi, poi, se non bastava la sola riforma della forma di governo a garantire la stabilità politica, sì da rendere superflua la riforma in senso maggioritario della legge elettorale.
Sebbene, nel contesto del disegno in esame, abbiano rilevanza meramente formale, il Presidente della Repubblica conserva una serie di prerogative: egli, infatti, dà l’incarico di formare il nuovo governo al Presidente eletto, su proposta di quest’ultimo nomina i Ministri.
L’art. 4 dell’articolato in esame è composto da due commi, il cui scopo è quello di evitare i così detti «ribaltoni» ed i governi dei tecnici.
La lett. A) della norma in esame prevede che il Governo per ben due volte non ottenga la fiducia delle Camere; ricorrendo tale eventualità –a dire il vero alquanto fantasiosa- il presidente della Repubblica procede a sciogliere le Camere. La lett. B) dell’articolato in esame prevede che, in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto (es. dimissioni), il presidente della Repubblica possa conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente dimissionario o ad un altri parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto.