Mentre la riforma del nostro Codice del rito penale langue tra polemiche che meriterebbero ben più elevati argomenti di confronto, sembra cominciare a farsi strada – fra gli addetti ai lavori – l’idea dell’interazione fra strumenti di diritto nazionale e mezzi di ordine sovranazionale da utilizzare a difesa di imputati rispetto ai quali le Procure, i GIP/GUP e i Tribunali della libertà si ostinano tutt’ora a denegare quella presunzione di innocenza che – pur presente nell’art. 27, comma 2, della Costituzione e nonostante l’avvento della Direttiva europea n. 216/343 – è stata addirittura sbeffeggiata in conferenze stampa di Procuratori della Repubblica che hanno chiesto (e ottenuto) il contemporaneo arresto cautelare di centinaia di persone le quali – in molti casi – neanche si conoscevano fra loro.
Il processo penale mediatico continua dunque ad avvelenare l’attività giudiziaria ed è sempre più fiorente il “mercato nero” delle notizie che ogni giorno fuoriescono dagli uffici che dovrebbero invece custodirle: dobbiamo così arrenderci all’evidenza dei fatti e scegliere altre problematiche cui rivolgere attenzione per ottenere un sistema-giustizia un po’ meno lontano dalle garanzie di cui l’ordinamento italiano si sforza – or sono trent’anni e più – inutilmente di circondarlo.
Varrebbe dunque la pena prender le mosse dai diversi casi in cui i giudici italiani hanno dovuto, loro malgrado, affrontare il problema della conformità fra le disposizioni del nostro Codice di Procedura Penale e l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) o l’art. 47 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (CDFUE); ma poiché credo di conoscere la riottosità di molti di loro ad accettare meccanismi di controllo esterno quali sono appunto le sentenze CEDU, o – peggio ancora – gli interventi della Commissione Europea per garantire il rispetto dei diritti fondamentali previsti dal CDFUE, mi limiterò a ricordare che – se un cittadino italiano ritenga che i suoi diritti fondamentali siano stati violati nel corso di un procedimento penale, egli possa presentare un reclamo alla Commissione medesima perché venga accertato il mancato rispetto delle garanzie procedimentali che devono necessariamente accompagnare la rivendicazione di quelli diritti, soprattutto durante le famigerate indagini preliminari che si moltiplicano a dismisura, causa l’obbligatorietà dell’azione penale.
Quel reclamo dovrà essere motivato e accompagnato da tutte le informazioni rilevanti e dagli indizi della presunta violazione; a quel punto la Commissione avvierà un’istruttoria e, se giungerà a ritenere fondato il reclamo stesso, invierà una lettera di messa in mora al Governo per ottenere la rimozione della violazione medesima e – nel caso le Sue richieste non vengano soddisfatte – potrà decidere di portare la questione davanti alla Corte di Giustizia del Lussemburgo.
Gran parte della nostra dottrina, forse confondendo i presupposti del ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con il Reclamo alla Commissione Europea, suggerisce di presentare detto reclamo soltanto dopo l’esaurimento di tutti i rimedi processuali disponibili a livello nazionale; ma tale suggerimento si è rivelato esiziale perché non ha consentito, almeno fino ad oggi, alla stessa Commissione di verificare la sussistenza di violazioni nel corso delle indagini preliminari che inevitabilmente condizionano la successiva attività processuale.
Altrettanto poco frequente è il ricorso all’altro mezzo per ottenere il rispetto delle norme sovranazionali e consiste nella richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte del Lussemburgo avanzata al giudice nazionale dagli avvocati di difesa, per violazione delle disposizioni contenute nell’articolo 47 della Carta.
Infatti, ove tale incidente venga sollevato – su domanda, o anche d’ufficio – di fronte a quel giudice e costui non ritenga manifestamente infondata la richiesta, potrà sospendere il procedimento e rivolgersi direttamente alla Corte di Giustizia per ottenerne la conforme interpretazione alle disposizioni del diritto europeo: si tratta di un giudizio di conformità che potrebbe far dichiarare illegittime le disposizioni della legge nazionale (al pari di quanto avviene attraverso le sentenze della nostra Corte Costituzionale, pronunziate in sede di legittimità) e questa tecnica difensiva sarà particolarmente efficace ove – durante un determinato processo penale – sia affrontata una questione relativa alla compatibilità di una disposizione nazionale con i diritti sanciti dei Trattati europei, uno dei quali è appunto la Carta più volte richiamata.
Concludo, osservando come le Corti sovranazionali giochino un ruolo cruciale nella protezione dei diritti fondamentali dei cittadini e la potenziale violazione dell’articolo 47 nel corso di un processo penale possa esser dunque rappresentata come questione il cui rilievo superi quel singolo processo per imprimere al rito, come tale, una accelerazione verso forme di tutela che, fino ad oggi, sono state ben lungi dall’essere utilizzate con frequenza in Italia (gli altri Paesi europei ne hanno minor bisogno, essendo retti da sistemi processuali più garantisti del nostro).
Che si abbia il timore di qualche reazione “impropria” da parte dei magistrati giudicanti per il solo fatto di aver avuto l’ardire di aver presentato un Reclamo alla Commissione UE o – peggio – di far domandare ad un giudice sovranazionale di esaminare una questione che quello nazionale considera invece di propria esclusiva pertinenza?