“Per risolvere il problema delle competenze digitali bisognerebbe fare come negli anni sessanta con la Legge 1859/62, quando si introdusse l’alfabetizzazione di massa con l’obbligo di scuola media inferiore”. Lo sostiene Gianni Potti, fondatore di Digital Meet, il Festival italiano della digitalizzazione, giunto all’undicesima edizione che si tiene dal 23 al 28 ottobre a Padova e in tante altre città d’Italia: Bologna, Salerno, Lecce, Terni, Roma, Firenze eccetera. Quest’anno nell’ambito di DM2023 il professor Paolo Gubitta, ordinario di Organizzazione aziendale dell’Università di Padova ha condotto una ricerca, con il supporto di Infocamere, sulle competenze digitali e le richieste delle imprese. I risultati sono di una grande crescita di richiesta di “competenze digitali”, diminuzione di richiesta di “competenze informatiche e matematiche” e prospettive di ampliamento e incolmabilità del gap tra domanda e offerta. “Dovremmo considerare le competenze digitali – dice Gubitta – come competenze di cittadinanza. Solo così riusciremo a colmare il gap e ad avere una quantità di popolazione attiva capace di entrare e/o restare nel mondo del lavoro. Soprattutto gli over40 rischiano molta insoddisfazione all’arrivo di generazioni più competenti oppure, addirittura, rischiano di uscire dal mondo del lavoro e non poter più rientrare.”
Più competenze digitali
L’arco della ricerca sulle competenze digitale è molto vasto e ha preso in considerazione sei anni di evoluzione della domanda di lavoro di aziende di diverse dimensioni e in tutta Italia. Dal 2017 al 2022, la domanda di lavoro per la quale è richiesto il possesso della capacità di utilizzare “competenze digitali” è passata dal 57,7% al 64% (+11%). Nello stesso periodo, è rimasta sostanzialmente stabile quella relativa ai “linguaggi matematici e informatici” (da 50,9% a 51,9%), mentre è cresciuta in modo contenuto quella relativa all’applicazione di “tecnologie 4.0” (da 34,2% a 37.5%). Di fatto, per due persone su tre, il possesso di competenze digitali è una condizione “sine qua non” per essere occupabili. Il dato che balza agli occhi è quello che della classe aziendale di dimensioni da 50 a 499 dipendenti, dove si registra un incremento di posizioni con il possesso di competenze digitali (da 61,7% nel 2017 a 67,9% nel 2022) e un decremento di quelle in cui si richiedono capacità di utilizzare linguaggi matematici e informatici (da 54,3% a 52,8%).
In grandi aziende
Il dato che balza agli occhi è quello della classe di imprese con 50-499 dipendenti, dove si registra un incremento di posizioni con il possesso di competenze digitali (da 61,7% nel 2017 a 67,9% nel 2022) e un decremento di quelle in cui si richiedono capacità di utilizzare linguaggi matematici e informatici (da 54,3% a 52,8%). “Questo perché – spiega Gubitta – nelle imprese più piccole potrebbero esserci ancora processi a maggiore contenuto di lavoro umano in cui il trade off tra calcolo e giudizio è ancora in corso.”
Servono in tutta Italia
Dal punto di vista dei territori, il quadro che emerge è abbastanza omogeneo e non si ravvisano sostanziali differenze tra le aree geografiche, Sud e Isole, Nord, Centro. L’omogeneità è almeno in parte spiegata dalle vocazioni settoriali dei territori. Ad esempio, il Lazio ha una forte vocazione per i servizi, che si specchia nella richiesta elevata di “competenze digitali”, così come avviene per il Nord e il Sud per le aziende. La domanda di competenze digitali, ad esempio, in Campania è del 65,2% superiore anche al Veneto (63,4%) e all’Emilia-Romagna (63,3%).
Commercio a rischio
Tra i settori il Commercio risulta essere quello più sotto pressione. E’ quello che mostra il bisogno di inserire rapidamente “dosi massicce” di personale in possesso sia di competenze digitali sia di linguaggi matematici e informatici. Gap che può essere colmato soltanto “iniettando” competenze alle persone che già lavorano nel comporto perché il ricambio generazionale non è sufficiente. Il rischio concreto che il Commercio sta correndo è la perdita di un certo numero di imprese piccole che, nell’impossibilità di trovare i profili richiesti dovranno posticipare o annullare i piani di innovazione (digitale) del loro sistema di offerta.
Over 40 da formare
Le persone dai quaranta ai sessant’anni sono il target di una alfabetizzazione digitale di massa perché possano rimanere occupati e occupabili. “Non bastano”, spiega Gubitta, “generiche soft skill (autonomia, fiducia in se stessi, flessibilità, resistenza allo stress, precisione, capacità organizzative) ma servono hard skill, vere e proprie competenze che si acquisiscono soltanto con lo studio.” Inoltre appare sempre più evidente che “l’approccio formativo deve superare il “modello Lego”, dove si acquisisce pezzo per pezzo, e utilizzare il Plug&Play – formazione immediata per quel tipo di lavoro – e va introdotto il sistema delle “microcredenziali” finalizzate a consentire alle persone di acquisire, aggiornare e migliorare le conoscenze e le abilità specifiche di cui hanno bisogno.”
I giovani “impertinenti”
La ricerca evidenzia che per le posizioni manageriali o apicali è dato per scontato che si abbiano competenze digitali e conoscenza dei linguaggi matematici e informatici, ma dato l’inverno demografico che viviamo è certo che il gap tra domanda e offerta di lavoro si presenta con un gap che non è colmabile col susseguirsi delle generazioni. “I giovani in possesso di competenze digitali”, aggiunge Gubitta, “accedono a posizioni apicali, ma trovano sempre più over 40-50enni in difficoltà, ma con lunga esperienza di lavoro, e questo può determinare un clima aziendale di contrasti tali da deprimere anche le performance dell’impresa stessa”.
Le ricerche recenti parlano di “whippersnappers”- “sbarbatelli impertinenti” – che scavalcano colleghi più attempati, ma con minori o senza skill digitali. Una “situazione esplosiva” se non sarà affrontata con urgenza.
Meglio i manager e chi sa poco
I numeri evidenzia il perché le aziende mostrano un “andamento asimmetrico”: alla diminuzione o stasi della richiesta di esperti di “linguaggi matematici e informatici” corrisponde una crescita a favore delle “competenze digitali”. “Perché le macchine fanno sempre di più lavori che facevano le persone – dice il docente padovano – e questo sembra produrre un ‘effetto spiazzamento’. Ovvero, quando si digitalizzano alcuni processi, alcune attività cognitive vengono internalizzate dalle macchine e non richiedono più uno sforzo umano per la loro elaborazione, analisi e interpretazione.” Semplicemente se in passato “i calcoli” li facevano le persone, oggi sono eseguiti dalle macchine, dall’Intelligenza Artificiale, pertanto – paradossalmente – alle persone è richiesto uno sforzo inferiore per accedere a certi mestieri, dall’altro questo può portare alla polarizzazione delle maestranze: “chi sa solo fare e chi sa sia fare, sia analizzare e interpretare”.