sabato, 21 Dicembre, 2024
Il Cittadino

Processo Regeni e diritti degli imputati

Si è formata una generale soddisfazione intorno alla decisione della Corte Costituzionale di consentire la celebrazione del processo Regeni, in assenza degli imputati e in mancanza della prova che gli stessi siano stati messi a conoscenza del giudizio pendente nei loro confronti.

È un sentimento al quale – lo dico subito, perché sia chiara la mia posizione in una materia molto complessa e delicata – al quale non mi unisco. Nel mio modo di vedere, anzi, la decisione della Corte Costituzionale desta non poche perplessità ed una generale preoccupazione, perché apre amplissimi spiragli, brecce direi, alle tesi meno garantiste dei diritti degli imputati.

Timore che non è solo mio, ma che era stato già espresso dalla Corte di Cassazione nel respingere l’impugnazione della Procura di Roma, sottolineando che il diritto dell’imputato ad avere conoscenza del procedimento che lo riguarda costituisce il presupposto irrinunciabile di un giusto processo, per l’esercizio di tutti i diritti riconosciutigli dalla legge.

Così mi sono detto, se sei garantista lo devi essere sempre, anche davanti ai crimini più efferati: laddove, come vedremo, nella sentenza in esame la Corte Costituzionale sembra essersi fatta “impressionare” dal terribile reato di “tortura” ipotizzato.

Garantista non significa innocentista. Non so, a priori se i quattro imputati (Sabir Tariq, con Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) siano colpevoli. So soltanto che fino a condanna, per la nostra civiltà giudica si presumono innocenti e come tali devono essere trattati. Consentitemi sulla specifica distinzione garantista-innocentista una citazione del troppo presto scomparso amico Arturo Diaconale, al quale sarò eternamente grato per avermi fatto partecipare come componente della Corte al Tribunale Dreyfuss: «Scambiare il garantismo per innocentismo è tipico dei giustizialisti. Cioè di chi disprezza la democrazia in cui la legalità è rappresentata dalla tutela delle garanzie individuali e crede nello stato etico dove le leggi non vengono fatte per difendere i cittadini, ma solo chi ha il potere e non vuole perderlo».

Ovviamente, non essendo ancora pubblicata la decisione della Corte Costituzionale, esprimerò solamente le sensazioni che derivano dalla notizia data dalla stessa Corte e dagli elementi giuridici che si possono trarre dall’ordinanza di rinvio.

È opportuno, quindi, riportare il comunicato della Consulta:

«La Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha esaminato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma in relazione alla celebrazione del processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni.

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio comunicazione e stampa fa sapere che la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa».

È lo stesso comunicato che pone in rilievo, quindi, la gravità del reato, traendo da essa (oltre che dal rifiuto di collaborazione di uno Stato estero non soggetto alla giurisdizione italiana) un argomento per il superamento del rigore richiesto dalla norma.

È un vizio molto italiano, fatto proprio dalla giurisdizione: più il reato ipotizzato è grave, più si ritengono superabili diritti e garanzie; magari addirittura con una apposita legge.

È così per i reati di mafia, dove basta solo l’ipotesi accusatoria per fare scattare misure preventive particolarmente dure e gravi; la pena prima della condanna fatta scontare spesso a persone che poi risultano estranee alla consorteria, e neppure condannabili di quell’inesistente reato – frutto di una costruzione giurisprudenziale – della partecipazione esterna.

Ecco che allora c’è da chiedersi se sia reale il rischio che una siffatta soluzione (procedimento anche in mancanza della prova che l’imputato sia a conoscenza del processo), ritenuta applicabile nei confronti dei probabili torturatori e assassini di Giulio Regeni, possa applicarsi ad altre ipotesi di reato, se non addirittura ogni qual volta l’autorità giudiziaria non riesca a rispettare gli adempimenti procedurali: che non sono meri atti formali, ma precise garanzie sostanziali stabilite a salvaguardia dell’individuo.

Perché – e concludo così il mio articolo con la citazione di una norma (l’art. 6 della CEDU) che ogni cittadino dovrebbe conoscere a memoria – mi sembra il caso di ricordare che:

«1. Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente (….)

  1. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
  2. Ogni accusato ha più specialmente diritto a:
  3. a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile, e in un modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; (…b…c…d)».

Il fondamento stesso dello Stato di Diritto: un giudice terzo ed autonomo, terzo ed autonomo anche e soprattutto nei confronti dello Stato, rappresentato dall’accusa; “persone” che sono tutti gli esseri umani soggetti alla nostra giurisdizione.

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