domenica, 17 Novembre, 2024
Esteri

Usa: elezioni presidenziali a suon di manette

La Costituzione degli Stati Uniti, pilastro della democrazia americana, si trova oggi al centro di un’accesa discussione, che si viene sviluppando a seguito di due eventi politicamente carichi e storicamente significativi: la richiesta di condanna del Candidato repubblicano alla Presidenza e l’Impeachment dell’altro probabile candidato – il Presidente democratico – in carica: il tutto – già di per sé complicato – viene ulteriormente aggravato dalle differenti maggioranze presenti nel Parlamento americano.

La Camera dei Rappresentanti è infatti a maggioranza democratica, mentre in Senato esiste una maggioranza repubblicana e se questa differenza non ha alcun significativo rilievo a proposito delle azioni penali avviate da Procuratori federali nei confronti Donald Trump, altrettanto non può dirsi in ordine alla richiesta di Impeachment avanzata – non a caso dallo Speaker repubblicano alla Camera dei Rappresentanti – nei confronti del Presidente Joe Biden.

La procedura di Impeachment prevede infatti che l’iniziativa spetti a quest’ultimo ramo del Parlamento, mentre il relativo giudizio dovrebbe svolgersi innanzi al Senato.

Le questioni di fronte a cui le cronache di questi giorni ci hanno messo innanzi sono altresì complicate dalla circostanza che quanto appena riferito non è in alcun modo disciplinato dalla Carta costituzionale americana, né conosciamo alcun significativo precedente ripescabile in elezioni presidenziali che si siano tenute in un passato più o meno remoto.

Sebbene la Costituzione degli Stati Uniti stabilisca infatti chi può candidarsi alla presidenza (ogni cittadino nativo degli USA che abba almeno 35 anni e sia ivi residente da almeno 14 anni) non disciplina in alcun modo il caso di un candidato condannato – se non addirittura incarcerato – durante la campagna elettorale.

La condanna di un candidato in piena corsa solleva così numerose questioni, prima fra tutte la sua capacità di proseguire la campagna elettorale, oltre alle potenziali implicazioni sulla sua effettiva eleggibilità.

Il punto di partenza di ogni approfondimento del problema deve però partire da una certezza: quella secondo cui la Costituzione di quel Paese non proibisce espressamente agli imputati, ai condannati e perfino agli incarcerati di candidarsi alla carica di Presidente degli Stati Uniti: carica all’interno della quale è ricompreso persino il potere di grazia – da esercitarsi senza alcuna previa consultazione di questo o quel ramo del Parlamento – per cui potremmo assistere all’inedito episodio di un presidente che, insediatosi, subito venga a graziare sé stesso, magari delegando temporaneamente quel potere (almeno per evidenti ragioni estetiche) al Vicepresidente, con cui ha condotto in tandem alla campagna elettorale.

Ma se il problema è di già difficile soluzione a proposito di Donald Trump, diventa ancor più complesso con riguardo a Joe Biden, quale Presidente in carica.

L’articolo secondo, sezione 4, di quella Costituzione prevede infatti la possibilità di Impeachment per “tradimento, corruzione e altri gravi reati e misfatti” e – dopo che la Camera dei Rappresentanti abbia avviato la relativa procedura – spetta al Senato (presieduto dal Vicepresidente appena eletto assieme al Presidente) giudicare Quest’ultimo.

Una maggioranza di due terzi dei senatori è necessaria per condannare e rimuovere un Presidente dalla carica ricoperta, che continuerà a perdurare almeno fino al momento della sua condanna.

A questo punto però lezioni del passato potrebbero soccorrerci al fine di risolvere i problemi che stiamo affrontando.

Nella storia degli Stati Uniti, tre presidenti sono stati sottoposti a Impeachment: Andrew Johnson nel 1868, Bill Clinton nel 1998 e Donald Trump (prima nel 2019 e poi nel 2021). Tuttavia, nessuno di loro è stato effettivamente rimosso dall’ufficio attraverso l’Impeachment.

La Costituzione degli Stati Uniti, pilastro della democrazia americana, si trova così al centro di un’accesa discussione in seguito a due eventi politicamente carichi e storicamente significativi.

Con la condanna del Candidato repubblicano alla presidenza e l’impeachment del Presidente democratico in carica, si apre un nuovo capitolo di interpretazione e applicazione della Costituzione americana, perché – sebbene la Costituzione degli Stati Uniti stabilisca chi può candidarsi alla presidenza (una persona che abbia almeno 35 anni, nata negli Stati Uniti e residente nel Paese per almeno 14 anni) – non affronta esplicitamente il caso di un candidato condannato durante la campagna elettorale.

La condanna in piena corsa elettorale solleva perciò numerose questioni, tra cui la sua capacità di proseguire la campagna dalla detenzione e le potenziali implicazioni sulla sua eleggibilità, anche se la Costituzione non proibisce esplicitamente ai condannati di candidarsi.

In particolare, l’articolo II, sezione 4 della Costituzione stessa prevede la possibilità di Impeachment per “tradimento, corruzione e altri gravi reati e misfatti”.

Dopo che la Camera dei Rappresentanti abbia avviato la procedura, spetta però al Senato giudicare il Presidente e – per rimuoverlo dall’incarico – è necessaria una maggioranza di due terzi dei senatori.

Nella storia degli Stati Uniti, tre presidenti sono stati sottoposti a impeachment: Andrew Johnson nel 1868, Bill Clinton nel 1998 e Donald Trump, prima nel 2019 e poi nel 2021; tuttavia, nessuno di loro è stato effettivamente rimosso dall’ufficio attraverso l’Impeachment.

Mentre allora la procedura di impeachment ha dei precedenti storici, la condanna di un candidato durante una campagna elettorale è un territorio inesplorato anche se le sue implicazioni sono immense: partiamo allora dalla constatazione che – se il Presidente in carica venisse effettivamente rimosso a seguito di Impeachment – sarà il Vicepresidente ad assumere le funzioni presidenziali, come previsto dal 25° Emendamento.

Il Partito Repubblicano si troverebbe così in una posizione piuttosto delicata, potendo scegliere fra il dover selezionare un nuovo candidato o il sostenerne uno che  è -in quel momento – detenuto; non meno imbarazzante sarebbe d’altronde la posizione del Partito Democratico che dovrebbe, a sua volta, o selezionare un candidato diverso da quello eletto, oppure rimettere in carica quest’ultimo nonostante l’esito dell’Impeachment..

In sintesi, questi eventi – senza precedenti utilmente richiamabili – pongono in risalto la robustezza e la flessibilità della Costituzione americana, ma aprono anche nuove domande e sfide per la stabilità politica e la fiducia pubblica nel suo sistema elettorale.

La Nazione guarderà con attenzione a come questi eventi si svilupperanno e alle loro ripercussioni a lungo termine sull’intera democrazia americana.

La procedura di Impeachment rappresenta dunque uno strumento fondamentale per garantire la responsabilità dei leader eletti e (anche se il numero effettivo di presidenti che abbiano affrontato una simile procedura è ridotto) ogni caso ha avuto motivazioni e circostanze distinte.

Vediamole partitamente.

L’impeachment di Johnson ruotava attorno alla sua decisione di rimuovere Edwin M. Stanton, un membro del suo gabinetto e sostenitore dei diritti civili per gli afroamericani, cercando di sostituirlo con Lorenzo Thomas: quella mossa violava però il “Tenure of Office Act” (una legge che impediva al Presidente di rimuovere certi titolari di uffici senza l’approvazione del Senato) e Johnson sfuggì alla rimozione dall’incarico per un solo voto in Senato.

 Clinton fu messo invece sotto Impeachment perché accusato di una relazione extraconiugale con Monica Lewinsky, una stagista della Casa Bianca.

 Le accuse erano basate su dichiarazioni ritenute false che Clinton aveva fatto durante una deposizione giurata, concernente la sua relazione con medesima Lewinsky; di conseguenza, le accuse erano per spergiuro e ostruzione alla giustizia: Clinton venne assolto dal Senato per entrambe le accuse e la maggioranza dei senatori votò contro la sua rimozione, raggiungendo un Quorum ben lontano dai due terzi necessari.

In anni ancor più recenti, tale procedura ha infine interessato (Per ben due volte!) Donald Trump: nel primo caso (2019) Egli fu messo sotto accusa a seguito di una conversazione telefonica con il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky e fu processato per aver chiesto a Zelensky di indagare sul figlio di Joe Biden – suo avversario politico – in cambio di aiuti militari (le accuse  erano di abuso di potere e ostruzione al Congresso), mentre nel secondo caso (2021) l’innesco avvenne a seguito dell’assalto al Campidoglio verificatosi il 6 gennaio 2021: l’accusa era di “incitamento all’insurrezione” per il ruolo avuto nell’incoraggiare i propri sostenitori, affermando che le elezioni del 2020 fossero state “rubate” e anche in questo caso Trump fu assolto dal Senato, sebbene un numero senza precedenti di senatori repubblicani avesse votato  a favore della sua condanna.

Come si vede, questi precedenti – pur significativamente diversi – rappresentano episodi più che eccezionali nella storia politica e costituzionale degli Stati Uniti.

E’ allora interessante notare che – se la procedura di Impeachment ha dei precedenti storici – la condanna di un candidato durante la campagna elettorale presidenziale è un territorio inesplorato e le sue implicazioni sono immense e solo la prima di esse è oggi prevedibile: se il Presidente in carica venisse effettivamente rimosso a seguito dell’Impeachment, il Vicepresidente assumerebbe  allora le funzioni presidenziali, come previsto dal 25° emendamento e – se il Partito Repubblicano venisse a trovarsi in posizione delicata, potendo dover selezionare un nuovo candidato o sostenerne uno in quel momento detenuto – ancor più delicata sarebbe la posizione del Partito Democratico che – per continuare a sostenere legittimamente la candidatura di Biden – dovrebbe impegnare il Presidente in carica (anche ove appena deposto), oppure andare a nuove elezioni: esattamente come sarebbe accaduto se il candidato eletto fosse Trump.

Quanto appena riferito non deve però ingannare i commentatori, perché questi eventi mai accaduti non debbono essere letti come fattori negativi (almeno dal punto di vista costituzionale), quanto piuttosto come elementi che pongono in risalto la robustezza e la flessibilità della Costituzione degli Stati Uniti, aprendo anche nuove domande e sfide per la stabilità politica e la fiducia degli americani nel proprio sistema elettorale.

 Anche noi – al pari degli abitanti di quella Nazione – guarderemo con attenzione a come tali eventi si svilupperanno e alle loro ripercussioni, a medio e lungo termine, sulle altre democrazie occidentali.

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