mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Ambiente

L’industria della moda fa fatica a riciclare. Consumatori ancora lontani dalla sostenibilità

In Italia è nato il Consorzio Re.Crea con i maggiori stilisti italiani. Dovrà promuovere nuove idee di smaltimento

Il settore della “moda circolare”,  vale 73 miliardi di euro. È la stima della società di consulenza Kearney, e riguarda ambiti molto diversi:  rivendita, noleggio, riciclo, riparazione e rifacimento. Secondo le stime le oggi c’è un riciclo pari al 3,5% del mercato mondiale, e coinvolge colossi del fast fashion come H&M (che mira a diventare circolare al 100% entro il 2030) o Inditex, proprietario di Zara e terzo rivenditore al mondo. Anche marchi di lusso come Ralph Lauren, Coach, Patagonio o North Face vanno nella stessa direzione: economia circolare e sostenibilità. Dalle proiezioni e stime però nella realtà, passare dall’usa e getta alla moda circolare comporta grandi sforzi che, detto in numeri, significherebbe passare dal 3,5% del mercato al 23% entro il 2030. E, secondo gli esperti del settore, le imprese “non si stanno muovendo abbastanza velocemente”.

L’economia lineare domina ancora

I marchi sarebbero ancora troppo impegnati a spingere sempre su nuovi prodotti: novità e “nuova novità”. Ma anche i consumatori sono attardati sull’”aquistare e smaltire”. Soprattutto riguardo i prodotti di moda, i consumatori italiani, francesi e americani non sono ancora sufficientemente educati alla sostenibilità. L’indagine Kearney rivela che quasi la metà degli intervistati in un recente sondaggio non è in grado di dire se i materiali vergini sono migliori o peggiori di quelli riciclati. Circa il 40% non sa di poter restituire i vestiti per il riciclo e non sa come fare. Per non parlare del sottosviluppo della catena del riciclo: raccolta e consegna di indumenti, smistamento, riduzione delle scorte invendute, controllo e separazione dei sottocomponenti (bottoni, fibbie, cerniere, eccetera). Insomma si parla molto di circolare, ma il sistema poggia ancora quasi tutto sul lineare.

Armani e Benetton virtuosi

Non è semplice invertire le rotte da un giorno all’altro, ma qualcuno ci prova. Il Fashion Transparency Index 2023, ad esempio, ha appena pubblicato, una revisione annuale di 250 dei più grandi marchi e rivenditori di moda del mondo, classificati in base a una serie di parametri di sostenibilità, rilevando che il 12% dei marchi non dichiarerà nemmeno i volumi di produzione annuali e solo due marchi, Armani e United Colors of Benetton, annunciano l’impegno a ridurre il numero di nuovi capi prodotti. Nel rapporto si legge: “gli schemi di ritiro, il noleggio e altri nuovi modelli di business sono efficaci quanto bloccare una diga con una benda a meno che i problemi di sovrapproduzione e consumo eccessivo non vengano affrontati alla radice”. 

Nonostante questo qualcosa di muove. Nel 2019, più di 100 marchi di moda, fabbriche di abbigliamento e produttori hanno firmato le linee guida per progettare e realizzare jeans basati sui principi dell’economia circolare. 70 delle 100 aziende partecipanti hanno disegnato 1,5 milioni di jeans conformi alle linee guida, con un marchio su nove che ha riprogettato almeno il 40% del proprio portafoglio di jeans. Più di un terzo delle aziende ha applicato i principi ad altri indumenti, tra cui giacche, camicie, borse e cappelli.

Il Consorzio Re.Crea

In Italia è appena nato il Consorzio Re.Crea, fondato da Dolce&Gabbana, MaxMara Fashion Group, Gruppo Moncler, Gruppo OTB, Gruppo Prada, Ermenegildo Zegna Group, e coordinato dalla Camera Nazionale della Moda Italiana. Il fine di Re.Crea è gestire i prodotti del settore tessile e moda a fine vita e promuovere la ricerca e lo sviluppo di soluzioni di riciclo innovative. Il Consorzio intende rispondere tempestivamente alla direttiva europea sulla “Responsabilità Estesa del Produttore in Materia di Rifiuti Tessili (EPR: Extended Producer Responsibility)” e alla normativa nazionale di attuazione su questo tema, al momento in fase di definizione e coordinata dal Ministero della Transizione Ecologica. Si tratta di un progetto “comune” e “concreto” che dovrebbe rispondere proprio al nuovo paradigma della circolarità. Sono avviate collaborazioni e scambi con il DTech Lab, centro di innovazione all’interno del campus del Fashion Institute of Technology di New York. Il FIT DTech funge da ponte tra l’accademia e l’industria, coinvolgendo docenti e studenti nella risoluzione di problemi industriali con il design e la tecnologia. Il “Silklab”, laboratorio di ricerca interdisciplinare della Tufts University di Boston, per la ricerca sui materiali di origine naturale, di larga diffusione e sostenibili e il MIT Center for Collective Intelligence di Boston, che esplora come persone e tecnologia possano agire collettivamente in maniera pionieristica.

India impone ancora abiti usati “mutilati”

Secondo il rapporto “Italia del riciclo” di Mite e Ispra, nel 2021 i rifiuti tessili smaltiti censiti ufficialmente sono stati circa 480mila tonnellate, di cui 284mila tonnellate sono pre-consumo, dunque rifiuti industriali della filiera tessile, scarti di taglio e abbigliamento. Quelli invece raccolti dai rifiuti urbani, post-consumo, sono stati 146mila tonnellate. Il flusso di abiti usati esportato dall’Italia ha oscillato negli ultimi anni tra 100 e 150mila tonnellate. L’esportazione di abiti usati è soggetta a consistenti restrizioni o a un vero e proprio divieto in molti paesi,imposto per tutelare la loro industria tessile e dell’abbigliamento.

L’India, che costituisce su scala mondiale il principale mercato di rilavorazione di stracci e abiti usati, impone ad esempio la “mutilazione” degli abiti usati per bloccarne la vendita sul mercato come abiti di seconda mano. Per l’Italia i principali mercati degli abiti usati destinati al riutilizzo sono la Tunisia e l’Est europeo, che assorbono da soli oltre un terzo delle esportazioni, e flussi significativi sono avviati anche ad altri mercati africani (Ghana, Niger).

Il mercato circolare della moda sarà anche in ritardo, ma per Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda e di Re.Crea le grandi aziende italiane hanno cominciano a “fare sistema su un tema cruciale per la nostra industria. La gestione dell’intera vita dei prodotti è misura del senso di responsabilità che ogni produttore deve avere dal momento in cui crea un capo. E’ bello che dai grandi marchi dell’alta qualità parta un messaggio che sarà centrale per il futuro della moda”.

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