Qui al sud fa caldo. Anzi, caldissimo. E non è la prima estate di sole rovente, se ricordo bene. Sono appena atterrato dopo essermi lasciato alle spalle una decina di gradi scarsi e pioggia. In Inghilterra l’autunno è arrivato con grande anticipo, anche quest’anno. A Napoli quasi si sviene. Quaranta gradi che scorrono carsici lungo ogni rivolo di sudore, fin dove il petto mura il respiro.
C’è una donna in coda al controllo passaporti. Ho mal di pancia, fa. Non è sola. Ci saranno forse un centinaio tra turisti e variegato bestiario umano. Un tizio guarda fuori. Io c’ho l’aria condizionata a casa, pensa. E poi corpi e storie e calore che fanno lo slalom tra altri corpi e altre storie e altro calore. Se le valigie superano lo scoglio del lost and found si corre il brivido dello scampato pericolo e di un ostacolo in meno da superare. Sempre che non ci si imbatta nella macchinetta scassata del parcheggio a ore a prendersi in pegno secondi preziosi di libertà e altro calore.
È stato il karma. Decenni di strafottenza che ormai presentano il conto mentre il dibattito cambiamento climatico si, cambiamento climatico no infiamma lo scambio di opinione. Come se in palio mica ci fosse l’interesse generale di capire se e cosa fare per stare meglio, ma solo la vittoria di Pirro di avere l’ultima parola nell’ennesimo e arido match tra presunte destre e presunte sinistre. Che ormai ha fatto il suo tempo, come le stagioni. Eppure.
Nel più tipico riflesso delle società arcaiche in cui non di futuro si parla, oggi l’Italia brucia, ma bisogna andare a pagina 9 di un quotidiano qualsiasi per trovare mezza riga sul nostro rapporto con l’ambiente. Per non parlare (e infatti non se ne parla) di visione e pianificazione, di necessarie partnership tra pubblico e privato, o di futuro sostenibile. Nessuna traccia su ricerca e innovazione o sull’importanza dell’educazione per promuovere un cambiamento duraturo. E se neanche le Nazioni Unite sono riuscite a smuovere le acque, forse è giusto che finisca così, come ombre alla ricerca dell’ombra.