Che la crisi di tenuta e di credibilità del Movimento cinque stelle sia più profonda di quanto sembri agli osservatori più benevoli, lo dimostra l’improvvisa decisione di Di Maio di dismettere l’abito del diplomatico per riproporsi con quelli di improbabile guerrigliero quando ieri ha chiamato il suo popolo, o quanto ne resta, a riappropriarsi delle piazze per protestare contro la supposta restaurazione dei vecchi poteri.
Una restaurazione che, secondo la sua denuncia, passa attraverso la contestazione alla riforma della prescrizione nei processi penali voluta da Bonafede, l’orientamento della specifica commissione del Senato ad accogliere i ricorsi contro il taglio del vitalizio agli ex parlamentari, le richieste di referendum sul reddito di cittadinanza e la revisione di quota 100 nelle pensioni.
L’appello alla piazza in funzione antisistema segna il ritorno alle origini del Movimento, all’epoca dei “vaffa” di Grillo, degli istinti a demolire partiti ed istituzioni legati ad una storia di 50 anni di sviluppo, di promozione umana e civile del Paese senza per altro opporvi modelli alternativi e una solidità culturale capace di comprendere le trasformazioni della società e dell’economia, il ruolo dell’Italia nell’Europa e nel mondo.
È quindi un tentativo fragile e maldestro, quello di Di Maio, che è forse fatto proprio dal nucleo duro degli attivisti e dei dirigenti del M5S e che mira, con il coraggio della disperazione di chi vede franare il proprio mondo e i propri ruoli, a restituire al Movimento il ruolo di forza dura antisistema, distinta e distante da altre formazioni politiche, in primo luogo proprio dagli alleati del Pd, ritenuto espressione dell’esecrato sistema.
Non c’è da illudersi: il M5S non potrà mai diventare insieme un partito di lotta e di governo come fu – con ben altra storia, radicamento e strumenti ideologici – il vecchio PCI. Il suo destino fragile e precario è nel suo stesso dna: quel dna che si sta traducendo nelle difficoltà di un governo immobile, incapace finora di scelte decisive.