L’alluvione in Romagna sta avendo l’effetto inaspettato di fare emergere l’inefficienza assoluta della burocrazia, che dovrebbe essere il motore dello Stato.
Il Governo, lo abbiamo scritto la settimana scorsa, ha a che fare con un disastro naturale non in una zona depressa, ma in un territorio fondamentale per l’economia italiana. Con gente consapevole del suo ruolo e della sua importanza e che ha già pronto un piano non di ricostruzione, ma di ulteriore sviluppo: non si aspetta solo risarcimenti, ma finanziamenti per progetti anche nuovi.
Tin bota, un po’ come il fasìn de bessôi del 1976 in Friuli, sottolinea, con l’uso del dialetto e non della lingua italiana, una particolarità, un distacco dai vizi nazionali.
Naturalmente, e comunque, la situazione emergenziale richiede la tempestività dell’intervento. Tempi certi e veloci, imposti anche dall’attuazione del PNNR.
Il Governo, che è il consiglio di amministrazione che quelle opere deve compiere, si trova nella identica drammatica situazione quotidiana di migliaia di imprenditori n Italia: ha la finanza necessaria, ha un piano da attuare, ha le necessarie capacità tecniche per attuarle, ma è imbalsamato da regole complesse, arzigogolate e che spesso vietano ciò che altre norme consentono; deve confrontarsi con enti (altri organismi della macchina burocratica statale, enti locali, autorità e simili) con competenze differenti e contrastanti.
Insomma il Governo in questo istante ha tutto, ma sa già in partenza che la concreta realizzazione delle opere volute dovrà superare la barriera di fuoco della burocrazia.
Ha pensato di rimediare col progetto di assumere centinaia di migliaia di nuovi dipendenti pubblici. Ma questa non è una soluzione. Innanzitutto perché i tempi dei concorsi pubblici sono di per sé lunghi e si possono allungare ulteriormente per eventuali ricorsi. Ma anche perché i metodi di selezione (rimasti quelli del secolo scorso, di una civiltà diversa da quella digitale odierna) e l’offerta economica francamente modesta (rispetto a ciò che un giovane valido può trovare sul mercato mondiale) non attraggono il meglio, ma solo chi, senza ambizioni, vede la tranquillità dell’impiego statale sicuro, del posto fisso. Poi tra loro ci saranno quelli che capiranno le regole del gioco e faranno carriera: ma sempre nell’ambito di un sistema fatto non per aiutare il cittadino, ma per creare ostacoli.
Ogni ostacolo coincide, infatti, con un potere burocratico; ogni potere burocratico è uno scoglio con cui si deve necessariamente cozzare, per poterlo superare. Dove il “no”, il rifiuto, determina potere. Pensateci: se un ufficio risponde negativamente ad un passaggio che è necessario, l’interessato dovrà fare di tutto per convincere del suo buon diritto, e trasformare il no in sì. Il rimedio giurisdizionale, costosissimo, lungo, non è una soluzione, ma un tentativo disperato di ottenere il proprio diritto, spesso inutile: perché intanto il decorso del tempo potrebbe avere reso obsoleta ed inutile l’opera che si voleva realizzare.
Esattamente come accade oggi al Governo, soprattutto col PNNR che, provvedimento di un’autorità sovrana, impone termini perentori, notoriamente indigesti al potere burocratico che si basa su tre declinazioni dello stesso, inconciliabili col fare: la deroga, la proroga, la surroga (cit. da “Intervista in quarantena” di Mario Scali e Francesco Femia, 2020).
Il Governo, potere per eccellenza, vive il medesimo stato di impotenza dell’imprenditore. Stabilisce una somma già a disposizione per fare un’opera urgente, la stanzia, ma non riesce a spenderla: non realizza, quindi, l’intervento voluto, se non fuori tempo massimo.
Il fatto è che, come sostenuto fin dal primo articolo di questa rubrica, in Italia “Tutto è vietato, tutto è tollerato” (2 novembre 2019). Miriadi di leggi (nessuno sa quante siano) con il fine dichiarato (ed inutile) di regolare nei minimi dettagli qualsiasi attività. Ottenendo soltanto lo scopo di tenere in soggezione i sudditi (se vi fossero cittadini si sarebbero da tempo già rivoltati): la farraginosità dei regolamenti e delle leggi si spinge al punto che nessuno è mai sicuro di “essere in regola” e la facilità con cui si incorre in violazioni accresce il potere burocratico (ma anche quello giudiziario).
Si sopravvive grazie alla tolleranza dei comportamenti non conformi a legge, se non addirittura illeciti e – in barba alla certezza del diritto (istituto giuridico dimenticato completamente dalle nostre parti) – dalla occasionalità delle sanzioni: che colpiscono una irrilevante minoranza, per pura casualità o per specifica volontà di nuocere verso qualcuno o di compiacere qualche altro.
Proponevo in quell’articolo del 2019 la metafora del traffico di Roma: una città che vive impunemente in divieto di sosta, nell’assoluta indifferenza di chi dovrebbe far rispettare le regole. Infliggendo sanzioni solo occasionali (e perciò stesso ingiuste), mai finalizzate a contrastare il comportamento illecita, che è generalmente tollerato.
Il Governo Meloni – voglio crederlo anche perché politicamente non dovrebbe incontrare le resistenze interne che hanno imbalsamato i tentativi di riforma attuati dai governi di centrosinistra – potrebbe riuscire in un processo di semplificazione. Ma il primo ostacolo che deve affrontare, proponendo i suoi decreti, è costituito dalla sua propria burocrazia: o meglio da chi, per suo conto, è chiamato a redigere materialmente leggi e regolamenti.
Il rischio vero, reale, è che venga proposto un decreto semplificazione, così lungo, complesso, contorto, con contraddittori rinvii ad altre leggi e con relazioni tecniche di accompagnamento di centinaia di pagine, che la semplificazione divenga addirittura più complicata della situazione che si voleva semplificare.