Il lavoro “agile” genera anche disturbi fisici – tradizionali del lavoro d’ufficio o intellettuale –con la comparsa in molti lavoratori e lavoratrici smart, di disturbi alla vista, ipertensioni, malattie cardiovascolari nonché quelle del sistema muscolo-scheletrico, ad esempio, per l’uso di postazioni di lavoro non congrue, per i ripetitivi sforzi muscolari a cui vengono sottoposti gli arti superiori per carenza di pause e per la sedentarietà che spesso affligge i lavoratori smart. I malesseri riscontrati sono stati, altresì, associati alla despazializzazione del lavoro, ossia a un luogo non sempre idoneo rispetto all’esercizio della prestazione lavorativa perché o troppo piccolo o troppo affollato o isolato e come tale non in grado di consentire la socializzazione. Tra i fattori di questo rischio sono stati ricompresi anche quelli di natura ambientale come il rumore e il microclima dovuto alle variazioni di temperatura o a una cattiva ventilazione.
Ecco perché è stato segnalato in un recente studio dell’OSMOA, Osservatorio per le Malattie Occupazionali e Ambientali dell’Università degli Studi di Salerno, che nell’integrazione tra online e offline ci sono vantaggi e svantaggi ed uno dei rischi di un contesto sempre più fluido è l’assenza di confini tra il luogo fisico del lavoro e quello della vita privata, mettendo così in pericolo il work-life balance.
Modalità di organizzazione del lavoro di tipo agile, indubbiamente permettono al lavoratore di svolgere la propria prestazione lavorativa fuori dall’orario e dalla sede standard, consentono di aumentare la concentrazione, l’efficacia e l’efficienza della prestazione lavorativa, la produttività nonché di contribuire in modo più proficuo a supportare la spinta innovativa della propria organizzazione, attraverso lo sviluppo delle nuove idee, la partecipazione alla definizione di nuovi processi, nuovi prodotti o nuovi servizi, ma espongono il prestatore d’opera ai cd rischi psico-sociali.
Il lascito del lavoro agile emergenziale è stato fondamentale per considerare anche le ricadute connesse alle dinamiche introdotte da questa organizzazione. Per poter comprendere appieno i rischi sul versante della salute e della sicurezza, occorre partire dal dato empirico. La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici in modalità agile ha riscontrato diffusi malesseri associati alla sfera psichica come l’affaticamento mentale, lo stress, l’ansia e la depressione che, in alcuni casi, si sono concretizzati in vere e proprie patologie.
Alcune di queste sono già note come il disturbo post-traumatico da stress mentre altre che potremmo definire di “nuova generazione” come il bornout e il workaholismo sono correlate non tanto all’esposizione a rischi specifici quanto al modo in cui il lavoro in modalità agile è concepito, organizzato e gestito. Questi disagi, infatti, sono stati addebitati in primo luogo alla mancanza di un orario “normale” di lavoro che ha determinato un aggravio di responsabilità e carichi di lavoro eccessivi (over-work), neppure stemperabili attraverso l’effettivo godimento del diritto alla disconnessione. Si tratta di rischi legati alla detemporalizzazione le cui cause sono appunto eterogenee ma nell’insieme afferenti alla medesima dimensione di time porosity.
La l. n. 81/2017 ha dedicato una sola disposizione ossia l’art. 22 al profilo prevenzionistico del lavoro agile. Si tratta, a ben vedere, di una norma di per sé scarna nella struttura e laconica nei contenuti che non rende affatto facile il compito del datore di lavoro, principale debitore di sicurezza, di organizzarsi per eliminare e, ove possibile, evitare tutti i rischi alla fonte.
Il legislatore, sebbene sia stato esplicito nell’affermare che «il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore (…) in modalità (…) agile» (art. 22, comma 1), non sembra aver tuttavia considerato in modo soddisfacente la molteplicità delle situazioni pregiudizievoli imputabili alla dimensione qualitativa e quantitativa della prestazione agile. Di conseguenza sono rimasti senza un’adeguata risposta i numerosi interrogativi relativi agli «aspetti più sensibili della materia».
Cosa s’intende per rischi psicosociali? I rischi psicosociali sono al secondo posto in Europa tra i problemi di salute dovuti al lavoro. Con questo termine, secondo la definizione fornitaci dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 1986, s’intendono quei rischi che generano «una interazione tra contenuto del lavoro, gestione, organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e organizzative e tra competenze ed esigenze dei lavoratori dipendenti». Dunque, la loro insorgenza è strettamente connessa ad aspetti progettuali e organizzativi caratterizzanti contesti ambientali e sociali altamente nocivi per i lavoratori indicati più esplicitamente nella legge 4/2021 che ha recepito la convenzione OIL, che affronta, tra l’altro, l’obbligo di valutare i rischi psico-sociali.