Un incontro a Gennaio e un altro a Febbraio, poi un vuoto di iniziative, proposte e decisioni. La riforma previdenziale è scomparsa dalle agende istituzionali e dalle priorità dei sindacati che però sono in allarme. Di sicuro le buone intenzioni annunciate dal ministro del Lavoro, Marina Calderone, di incontri a cadenza ravvicinata con soluzioni in dirittura d’arrivo sono per il momento archiviate. Eppure l’annunciato del terzo appuntamento poi saltato, aveva all’ordine del giorno il tema più importante e controverso come la flessibilità di uscita da introdurre nel 2024. Il ruolino di marcia prevedeva la definizione di soluzioni concrete entro aprile. Il patto sindacati Governo doveva essere siglato – come era negli auspici nel 2022 con l’Esecutivo Draghi – con la presentazione del Documento di economia e finanza (Def) alle Camere. La riforma previdenziale avrebbe preso sostanza solo alla luce della situazione economica del Paese. Un percorso che rimane attuale anche per il Governo Meloni. Il premier in più occasioni e con lei i leader di maggioranza, hanno dichiarato la forte volontà del superamento della legge Fornero come priorità assoluta.
Previdenza e nuove emergenze
I tempi delle decisioni in politica sono strategici, c’è da puntualizzare che altre riforme come fisco e concorrenza, sono anch’esse in salita, mentre le emergenze: migranti, Ucraina, Superbonus, inflazione; hanno stravolto l’agenda delle priorità.
Segno che in generale problemi e incertezze non mancano. Dopo aprile per le pensioni la possibilità di dare una svolta al confronto rischia di slittare a fine estate. Dopo aprile, infatti, l’appuntamento di rilievo resta la nota di aggiornamento del Def, da tenere entro il 20 settembre.
Opzione donna, nodo irrisolto
A segnalare le difficoltà anche la ridefinizione di Opzione Donna che potrebbe avere una possibilità di successo solo con un decreto ad hoc. Un decreto che ripristini i vecchi requisiti almeno per un periodo limitato, permettendo l’accesso anche a quel 90% di donne escluse a causa delle modifiche introdotte nella manovra finanziaria.
Da Quota 103 a Quota 41
Con la primavera cominciano a sollevarsi anche altri interrogativi su cosa accadrà dopo “Quota 103”, che ha preso il posto di “Quota 102” (uscita con almeno 64 anni d’età e 38 di versamenti). La via adottata dal Governo su “Quota 103” resta valida fino al 31 dicembre 2023 e consente il pensionamento con 62 anni d’età e 41 anni di contribuzione. L’obiettivo annunciato dalle forze di maggioranza ai sindacati è quello di arrivare poi con la riforma a Quota 41. Decisione che vede in pressing in particolare la Lega. Con l’allungarsi dei tempi, tuttavia, secondo alcune fonti si fa strada una ipotesi che è quella di una proroga annuale della stessa “Quota 103”, in modo da avere più tempo per riordinare l’intero sistema previdenziale. Una ambizione che ha fatto naufragare anche diversi Governi. La possibilità che il Governo Meloni valuta è comunque di rassicurare i sindacati sulla flessibilità di uscita con il garantire un “canale” in grado di fare accedere il lavoratore alla pensione prima della soglia di vecchiaia. In sintonia con quanto accade già con Ape sociale, e in parte con Opzione donna.
Corsa ai prepensionamenti
I numeri dell’Inps sui flussi di pensionamento sono chiari: più di 3 trattamenti su 10 sono erogati come assegni anticipati o prepensionamenti.
L’età media dei titolari di queste pensioni è di 61,1 anni per gli iscritti al Fondo lavoratori dipendenti dell’ente previdenziale, di 61 anni per coltivatori diretti, mezzadri e coloni per poi salire leggermente a 61, 4 anni nel caso degli artigiani, 62,1 anni in quello dei commercianti e a 62,4 per i dipendenti pubblici.
Più pensionati meno lavoratori
L’asticella degli obiettivi per il 2024 viene così alzata anche sotto la spinta dei dati dell’Istituto di previdenza che oltre a segnalare il numero dei pensionati e il calo dei lavoratori, mostra un sistema in disequilibro, nell’ultimo monitoraggio sui flussi di pensionamento si sottolinea che 779.791 trattamenti erogati con decorrenza 2022 quasi il 31% è riconducibile a trattamenti anticipati o prepensionamenti. In particolare, di questi assegni 276.468 sono risultati pensioni di vecchiaia, 241.339 trattamenti anticipati, 42.063 pensioni di invalidità e 219.921 “ai superstiti”. Dalla rilevazione Inps emerge che nel 2022 l’età media delle uscite anticipate degli iscritti al Fondo pensioni lavoratori dipendenti (la principale “gestione” dell’ente) è stata di 61,1 anni: 60,8 anni per le donne e 61,3 per gli uomini. La soglia anagrafica media è risultata più bassa per la gestione dei coltivatori diretti, coloni e mezzadri (61 anni), ma più alta per quelle degli artigiani (61,4 anni), dei commercianti (62,1 anni) e dei dipendenti pubblici (62,4 anni).
Una gestione, quest’ultima, dove i trattamenti anticipati hanno assorbito il 53% di tutte le pensioni con decorrenza 2022, mentre per i lavoratori dipendenti e gli artigiani si scende al 34%, per i commercianti al 29% e per i coltivatori diretti al 26 per cento.
Tre miliardi per le baby pensioni
Infine da sottolineare che in un sistema in affanno con richieste spesso in contrapposizione, tra conti e bilanci che rischiano di andare in rosso, ci sono anche situazioni che sono un “paradiso” pensionistico. L’Inps ha reso noto come ancora oggi a distanza di decenni c’è chi usufruisce delle uscite vantaggiosissime delle “baby pensioni”, che costano all’Istituto 3 miliardi l’anno. L’Inps liquida 185mila, assegni pagati da 36 anni a 146 mila donne, mentre il resto è versato agli uomini da 35 anni.