A 90 anni dall’edizione italiana del Processo, il capolavoro letterario incompiuto e postumo di Franz Kafka è sempre di una disarmante attualità. Con il Processo, lo scrittore tedesco ha creato un caso giudiziario di cui non si capisce se l’imputato sia colpevole o innocente e, d’altro canto, se il tribunale che lo accusa e lo condanna sia legittimo o illegittimo. In questa ambiguità che pervade il romanzo risiede anche il suo rapporto con il tema della congiura: se infatti Josef K. risultasse essere innocente e il tribunale illegittimo, il titolo dell’opera andrebbe rovesciato e saremmo di fronte ad una congiura perpetrata da una tanto potente quanto impenetrabile associazione segreta ai danni del protagonista, un giovane impiegato di banca cui viene notificato l’arresto per una colpa misteriosa.
A dividere i concetti di congiura e processo è infatti il principio di legittimità, che a sua volta risiede in quello di legge: un processo è uno scontro tra parti che avviene ‘nella legge’, una congiura uno scontro che ne avviene ‘al di fuori’. Per questo la considerazione più immediata da fare è che i processi siano ‘buoni’ e le congiure ‘cattive’: i processi sono dalla parte della legge e la legge è per definizione buona.
Per Kafka non è più possibile definire con certezza cosa sia legge. Nel Processo l’autore si chiede in cosa la natura della legge sia diversa da quella della violenza e dell’arbitrio: il tribunale del romanzo si definisce legge e tuttavia sembra essere un potere arbitrario e corrotto che opprime uomini innocenti con la violenza (da quella più sottile della burocrazia fino al picchiatore e ai sicari di K.
Lenta ma inarrestabile, la macchina processuale invade tutta l’esistenza del protagonista, finché solo e abbandonato da tutti, Josep K. accetta di soccombere.
Kafka, il più celebre interprete dell’angoscia contemporanea, descrivendo la condizione dell’uomo in una società divenuta troppo complessa e indifferente a qualsiasi autentico valore, sembra far emergente nel suo romanzo concetti analizzati da Walter Benjamin nel saggio Per una critica della violenza, dove il filosofo analizza i rapporti che intercorrono fra i concetti di «violenza», «potere» e «legge». Benjamin parla di un’altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa. Ciò dura fino al momento in cui nuove forze, o quelle prima oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a una nuova decadenza.
Kafka realizza la contrapposizione di idee di legge diverse tra loro giocando sul contrasto tra la legge ‘normale’ del diritto positivo e la legge mistica che fa irrompere nella vita del suo protagonista, un procuratore di banca dell’era borghese. Crea il paradosso poiché attribuisce alla seconda il potere sulla realtà: le dà così la legittimazione de facto che il senso comune attribuisce alla prima. Il paradosso però non è uno soltanto: la stessa legge mistica ne cela un secondo al suo interno, poiché si proclama ‘giusta’ al pari di quella divina, ma non vi è un Dio a rivelarla e a farsene garante.
K. è colpevole di non conoscere la legge. Ma quale legge? È la legge divina? È la legge mondana? E che rappresenta il tribunale? È una ulteriore versione dell’immagine del padre o è la burocrazia austroungarica? È un prodotto della nevrosi d’angoscia o è la burocrazia religiosa del popolo ebraico? Si chiede il protagonista.
La sua razionalità non gli basta per spiegare l’incomprensibilità della realtà. Ma una cosa certa è che Josef K. non smette di fare tentativi per scoprire la logica che regola il mondo e la vita degli uomini. Il senso della sua condanna sta proprio in questo monito. Josef K. È condannato alla morte perché vuole scoprire e conoscere quale sia il senso della vita.
Kafka si avvale di una scrittura allegorica e della figura allusiva soprattutto per descrivere istituzioni labirintiche e colpevolizzanti come il Tribunale le cui peculiarità sono la reticenza e la struttura, nascosta e fatiscente, con la sua collocazione in soffitte grigie e prive di aria. Ecco come Franz Kafka descrive l’organizzazione interna del Tribunale: «Una organizzazione che non solo ingaggia sorveglianti venali, ispettori inetti e giudici istruttori nel miglior dei casi di modesta capacità, ma che per di più mantiene magistrati di alto e di altissimo grado, con l’innumerevole, inevitabile corteo di uscieri, scrivani, gendarmi e altri addetti, forse, non mi tiro indietro davanti a questa parola, persino di boia».
Inoltre il Tribunale ha una struttura interna fatta da funzionari corrotti e dà giudizi corrotti e ha le sue aule giudiziarie in soffitte maleodoranti piene di aria stantia senza finestre e ubicate in quartieri popolari della città: «Cercare di capire che questo grande organismo giudiziario resta in una certa misura eternamente in equilibrio e che, se uno cambia automaticamente qualcosa lì dove si trova, si scava il terreno sotto i piedi e può precipitare…».
Nella parabola kafkiana il concetto di legge, che è proprio di molti, viene normalmente associato a quello di paura, minaccia, senso di colpa, punizione, vendetta, ma nonostante ciò tutti tendono alla legge, secondo Kafka. Tutti dunque aspirano alla calma, alla composizione dei conflitti, al superamento dei desideri e dei dolori; tutti tendono alla luce, a vivere in sintonia con le leggi della natura, ma come è possibile realizzarlo se i guardiani della legge spesso sbarrano la strada agli assetati di vera giustizia? Il primo passo che ci induce a fare Kafka è prendere atto che la giustizia è un valore immortale corrotto da un mondo mortale e che tale aspetto la rende mera esecutrice dei suoi mezzi.