Questo è uno spettacolo che occorre guardare bene, lasciando lo sguardo del “super partes”, che sta diventando una malattia del nostro tempo, che assume il pubblico quando entra in teatro come quando legge un giornale: l’errore è sempre altrui e leggere di altri rassicura argini di normalità che, se toccati, si sgretolerebbero più facilmente di quanto si desidera credere. È questa la vera, prima, grande funzione del teatro, che Popolizio e la compagnia Orsini portano avanti tenendone alta la bandiera. Partiamo dalla storia: Eddie Carbone (Massimo Popolizio) vive con la moglie Beatrice (Valentina Sperlì) e la nipote Catherine (Gaja Masciale), bambina cresciuta sulle sue ginocchia e divenuta una donna, quasi a discapito della consapevolezza che zio e nipote ne hanno. Già in questo si coglie la sapienza registica e narrativa dell’opera: gli atteggiamenti tra i due si rinforzano a vicenda, Eddie accede ad un fanciullino che rappresenta un eden giocoso fuori dalle fatiche lavorative e dalla condizione che può vivere un uomo semplice e immigrato dentro una grande metropoli; così Catherine, da nipote subordinata economicamente in realtà diventa la piccola principessa, la compagna di giochi, la vera destinataria di ogni attenzione.
Tutto questo è un affresco di quanto diceva Martin Buber sull’intersoggettività delle relazioni, in cui sempre ci si influenza reciprocamente. L’Avvocato Alfieri (Michele Nani), che poi avrà la sua ben ragione di esistere, si pone come voce narrante e insinua il sospetto del nero che sempre si trova al fondo della luce. L’arrivo in casa di due parenti della moglie, immigrati clandestini, soffia sul castello di carte che si dipana tra tavolo e credenza di una famiglia di origini siciliane che vive a Brooklyn. Marco (Raffaele Esposito) e soprattutto Rodolfo (Lorenzo Grilli), con i capelli troppo biondi, le doti di ballerino troppo distanti da un vecchio modello maschile, creano il caos da cui nascerà la tragedia. Eddie si incarica di trovare loro lavoro per permettergli di sostentare la famiglia rimasta in Italia, ma Rodolfo e Catherine sembrano innamorarsi e Eddie, senza la regina del suo giardino segreto si ritrova davanti ad uno specchio impietoso: è adulto, sta invecchiando, è un marito e il ponte per lui non è il passaggio verso un futuro da scrivere. Ma il fanciullo che abbiamo dentro accetta di morire? Molte sono le considerazioni da poter fare su questo potentissimo spettacolo. Cosa ha da dirci in primis, lo si può riassumere in quattro baci e un segno della croce. Il segno della croce che Eddie ripete per tre volte, davanti alla prospettiva delineata dall’avvocato di nuocere a chi lo infastidisce (i suoi due ospiti clandestini), è un atto iconico, che contiene tutto lo sguardo esistenziale di un uomo solido che da ben distinguere il giusto dallo sbagliato e che in vita sua non ha mai agito per recare male; c’è dentro questo gesto lo stesso turbamento del puro senza costrutti che inorridisce e teme di guardare il torbido dentro di sé. Non è forse questo un momento che dovrebbe far sussultare tutte le sedie degli spettatori? Quanto possiamo illuderci che non ci riguardi se letteratura, vita e la giovane psicologia continuano ad ammonirci incessantemente di quanti l’orrore annidi dentro la bellezza?
Sono i quattro baci di Popolizio a meritare, da soli, una laurea honoris causa in sociologia: Eddie bacia Catherine e manifesta l’eruzione di un bisogno di possedere e trattenere la sua porta d’accesso al sogno. Eddie bacia poi Rodolfo e non soltanto, secondo la mia lettura, per rivelarne la natura che lui sospetta omosessuale, Eddie con quel bacio sodomizza Rodolfo nel più atavico senso dell’azione, quello del capobranco che ancora impera sul territorio. C’è poi il bacio che Eddie ricambia con Marco, da cui parte la spinta: qui vediamo un Gesù che bacia il suo Giuda, in un ribaltamento che pertiene alla franca ammissione (tra uomini comunque con un codice d’onore fino a quel punto condiviso) di un tradimento e a una promessa di vendetta che si simboleggia nel bacio. Quest’ultimo bacio, Brosso come il sangue, nero come la morte, è il più rappresentativo, abissale e carnale di tutte le dinamiche di relazioni parentali.
L’ultimo bacio è quello che Popolizio da alla giugulare di ogni spettatore, perché è dal cuore alla testa che occorre setacciare i nostri istinti, ogni giorno, perché non vinca il germe distruttivo che abbiamo dentro: un grande gesto d’amore.
Sul valore della recitazione Popolizio è un mattatore, che ha scelto un cast capace di reggerne il confronto: tutti eccellenti.
Quanto alla volontà di creare un regia quasi cinematografica, espressa da Popolizio, per dare vita a questi fantasmi già morti, come lui li ha definiti, e animare una narrazione che è un immenso flashback, per me l’esperienza è ben riuscita. Occorre infatti tenere conto del valore dell’arte con cui ci confrontiamo: il teatro.
Il teatro viene a implicare, chiede al pubblico complicità attiva e nel fare questo gli dice che è ancora vivo. I primi piani cinematografici a teatro diventano i corpi interi degli attori, non i visi, e la capacità mimica di questi è degna di un trattato di fisiognomica.
Dopo il grande successo di M – Il figlio del secolo, la maestria interpretativa e la sapienza registica di Massimo Popolizio tornano sul palcoscenico del Teatro Argentina per la terza volta in questa stagione, dal 14 marzo al 23 aprile, con la sua nuova creazione Uno sguardo dal ponte, dramma di una passione sbagliata di Arthur Miller. Scritto nel 1955 in Italia fu messo in scena per la prima volta nel 1958 da Luchino Visconti, protagonisti Paolo Stoppa e Rina Morelli. Del capolavoro milleriano, nel 1962, fu tratto il film diretto da Sidney Lumet con Raf Vallone.
Un grande racconto teatrale proposto con la forza espressiva di un film di un affresco sociale che affronta tematiche come povertà, immigrazione clandestina, caccia allo straniero e morbosità familiare. Ambientato in una comunità di immigrati siciliani a Brooklyn, Uno sguardo dal ponte, ispirato da un fatto di cronaca, porta in scena le traversie di uomo dilaniato e sconfitto da una passione incestuosa. Il destino ineluttabile, da cui si può essere vinti e annientati, guida la trama dell’azione teatrale, impostata come un lungo flash-back con il protagonista Eddie Carbone – nell’interpretazione dello stesso Popolizio – che entra in scena quando tutto il pubblico già sa che è morto. Una grande storia raccontata come un film, ma a teatro.
Così commenta Massimo Popolizio: «Come scrive Miller: “L’azione della pièce consiste nell’orrore di una passione che nonostante sia contraria all’interesse dell’individuo che ne è dominato, nonostante ogni genere di avvertimento ch’egli riceve e nonostante ch’essa distrugga i suoi principi morali, continua ad ammantare il suo potere su di lui fino a distruggerlo”. Questo concetto di ineluttabilità del destino e di passioni dalle quali si può essere vinti e annientati è una “spinta” o “necessità” che penso possa avere ancora oggi un forte impatto teatrale. Tutta l’azione è un lungo flash-back, Eddie Carbone, il protagonista, entra in scena quando tutto il pubblico già sa che è morto. Per me è una magnifica occasione per mettere in scena un testo che chiaramente assomiglia molto ad una sceneggiatura cinematografica, e che, come tale, ha bisogno di primi, secondi piani e campi lunghi. Alla luce di tutto il materiale che questo testo ha potuto generare dal 1955 (data della sua prima rappresentazione) ad oggi, cioè film, fotografie, serie televisive credo possa essere interessante e “divertente” una versione teatrale che tenga presente tutti questi “figli”. Una grande storia… raccontata come un film… ma a teatro. Con la recitazione che il teatro richiede, con i ritmi di una serie e con le musiche di un film. Ci sarà un ponte, ci sarà una strada e in questa strada dei mobili, che sono la memoria della famiglia Carbone… Arriva l’avvocato Alfieri, la sua funzione somiglia a quella di un coro greco, è presente nel racconto e al contempo è spettatore fuori dalla scena, ci introduce nella vicenda che, non dobbiamo dimenticare, trae origine da un fatto di cronaca nera dal quale Miller fu profondamente turbato».
Fino al 2 aprile, Teatro Argentina – Roma
13 – 16 aprile, Teatro Piccinni – Bari
18 – 19 aprile, Teatro Due – Parma
22 – 23 aprile, Teatro Manzoni – Pistoia
25 aprile, Teatro dell’Unione – Viterbo
29 – 30 aprile, Teatro dell’Aquila – Fermo
6 maggio, Teatro Verdi – Gorizia
9 – 21 maggio, Teatro Strehler – Milano