Chi ha paura di affrontare la propria bestia interiore? Tutti. Perché si rischia di rimanere incastrati tra le sue fauci, come inerte carne che pende. “Chi ha paura di Virginia Woolf”, debuttò a Broadway nel 62 e continua ad essere un testo arduo e necessario con cui confrontarsi, un pozzo dentro cui guardare per vedere il coltello nascosto tra le pieghe dell’amore quando diventa coppia, tra gli spazi d’ombra delle rivoluzioni culturali, che sempre investono l’identità. Uno spettacolo che morde e tira, fino allo sfinimento fisico, come tutte le guerre intestine, che dal 31 gennaio al 12 febbraio è andato in scena sul palco del Teatro Argentina, a conferma della straordinaria qualità dell’offerta per il suo pubblico, prima di proseguire con le date del tour a Firenze, Viterbo e Bari.
La regia di Antonio Latella affonda nell’efferato gioco al massacro di un amore violento, disperato e vissuto tra confessioni, bugie e drammi borghesi che si inanellano nel capolavoro più celebre di Edward Albee, Chi ha paura di Virginia Woolf?, un classico della drammaturgia americana proposto nella traduzione di Monica Capuani e con drammaturgia di Linda Dalisi. In scena un cast straordinario di attrici e attori – Sonia Bergamasco (nel ruolo di Martha) e Vinicio Marchioni (George) insieme a Ludovico Fededegni (Nick) e Paola Giannini (Honey) – per interpretare un testo contemporaneo, realistico e visionario, che esalta la potenza lacerante e vorticosa del linguaggio, un’arma letale in cui precipitano le personalità e le debolezze che divorano e fagocitano i protagonisti.
Lo spettacolo, reso eterno anche dal film del 1966 di Mike Nichols con Elisabeth Taylor e Richard Burton, racconta la storia di una doppia coppia: due coniugi, insegnanti universitari di mezza età, Martha e George, che invitano a casa Nick, giovane collega di lui, e la moglie Honey, liberando tra fiumi d’alcool e vertiginose risate tutto il variegato assortimento di frustrazioni, ipocrisie e contraddizioni irrisolte del ceto medio. Durante la folle nottata il tasso alcolico cresce parallelamente all’intensificarsi dello scontro, anti-epico e
senza esclusione di colpi, in cui si abbandonano Martha e George per scoperchiare la matassa di stereotipi, rapporti di potere, idee e certezze sulla vita, fino a far fuggire la coppia di ospiti.
Dopo La valle dell’Eden di John Steinbeck, il regista Antonio Latella ci riporta ancora in America spingendosi nelle pieghe dell’immaginario di Edward Albee, dentro il linguaggio e nelle parole rivoluzionarie del drammaturgo, mentre ritrova anche alcune risonanze con Virginia Wolf, una vera visionaria e combattente instancabile per l’emancipazione femminile: «Non posso non partire dal titolo per affrontare questo testo: per sostituire il lupo della canzoncina “Who’s Afraid of the big bad Wolf?” Albee scomoda Virginia Woolf, una donna che insegnò alle donne a uccidere le loro madri, o meglio un’idea di madre, “l’angelo del focolare” – commenta il regista – Credo che tanto di tutto questo si trovi nel testo, la Woolf è presente nei due protagonisti che fanno da specchio alla giovane coppia scelta come sacrificio di questo violentissimo e disperato amore, questo: “jeu de massacre”. La Woolf è presente anche in una idea di narrazione che riguarda lo stesso Albee: “Ogni volta che entra la morte, bisogna inventare, mentire, ricostruire.
La morte la puoi vincere solo con l’invenzione”. Ed è proprio quello che fa fare Albee ai suoi protagonisti, prende spunto da questa frase della Woolf e porta questa coppia, ormai morente, a inventare per ricrearsi,
per restare in vita, a scegliere di inventare un figlio mai esistito, ed è spiazzante che lo faccia proprio lui che fu adottato. Bisogna scegliere di spiazzare la morte, di vincere la depressione, la paura, forse anche di anticiparla proprio come fece la grande Virginia Woolf».
E dentro questa coppia si spende e si sparge, allagando palco e platea, quanto di più contemporaneo attenti le relazioni odierne: incompiutezza, deresponsabilizzazione, rabbia, necessità di distruggere ogni candore
per rendere tollerabile la propria vita. Pallottole che vendono tirate in aria e che via via che esplodono smettono di essere tenute dai personaggi, in questa non salvezza che fa marcire.
Virginia Woolf morì suicida, i protagonisti del racconto mancano di questo coraggio, trasformando il disprezzo di sé in demolizione dell’altro, finendo per diventare zombie del non-amore, che chiede sangue vergine (la coppia giovane che diventerà il loro pasto).
Una pièce che celebra la potenza disarmante della parola, distruttiva, violenta, manipolatrice, svelando i meccanismi di un linguaggio che Albee svuota di significato: «come per la Woolf, anche Albee è ossessionato dal ritmo, che incide con una scelta maniacale della punteggiatura, forse oltre al linguaggio la sua vera ricerca. Le cronache raccontano che quando dirigeva gli attori pretendeva un rispetto totale della punteggiatura che aveva scelto, un rispetto della partitura, e quindi del ritmo. Tutto ciò mi porta ad una nuova avventura – continua il regista – un testo realistico, ma che diventa visionario per la potenza del linguaggio, per la maniacalità della punteggiatura e per la visionarietà, dovuta ai fumi dell’alcool e alle vertiginose risate che divorano e fagocitano i protagonisti di questo testo.
Albee, nel rifuggire ogni sentimentalismo, applica una sua personale lente di ingrandimento al linguaggio che sente parlare intorno a sé, ne svela i meccanismi di ripetizione a volte surreali che portano ad uno svuotamento di significato, ma come spesso accade in questo testo, parallelamente mostra come il linguaggio sia un’arma efferata per attaccare e ridurre a brandelli l’involucro in cui ciascuno di noi nasconde la propria personalità e le proprie debolezze». Un lavoro eccellente, quindi, quello del regista, che rivela meccanismi umani in cui la parola diventa potere e pugnale, possiamo ritrovare le caratteristiche di personalità, diffuse, del borderline che odia chi lo ama, perché in realtà si disprezza, e deve per questo punirlo, che teme l’abbandono e non fa che provocarlo; ritroviamo il narcisismo autoassolutorio e giudicante di chi balla col demonio sentendosi diverso; tutto scandito dai conati di vomito dell’unica creatura, ancora posseduta dall’amore e per questo ridotta al silenzio. Colpisce infine, il baratro dentro cui cade il femminismo: una donna sfrontata e libera, continua nelle viscere a ricercare l’approvazione paterna, a dimostrazione che nessun cambiamento è mai solo salvezza se non stabilisce alleanze ma alza scudi. Un lavoro incredibile, con un cast che offre una grandissima interpretazione, in una polifonia di registri che non si incontrano mai, calcando in modo eccellente due ore e mezza di spettacolo. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli.
Foto di Brunella Giolivo