Il Festival di Sanremo è da sette decenni l’appuntamento per eccellenza della musica italiana. È inevitabile che una manifestazione di così grande popolarità esca dagli stretti confini dell’intrattenimento musicale per diventare specchio del Paese e del momento che sta attraversando (anche Nilla Pizzi vinse nel 1952 con «Vola colomba» che celebrava la drammatica crisi fra l’Italia e il dittatore jugoslavo Tito per Trieste). Essendo diventato da parecchio un grande ed esteso momento mediatico, è fisiologico che faccia parlare per le ospitate, le battute, i gesti più o meno clamorosi e provocatori. E noi puntualmente lo aspettiamo.
Dal mio punto di vista, di cittadino e di professionista, ma anche e soprattutto di appassionato del pop, con ludici trascorsi musicali giovanili, è sempre bello lasciarsi contaminare dalla più bella e riuscita invenzione della storia umana che è la musica. Anch’ io ho la mia opinione sul controverso e a mio parere non del tutto opportuno invito a Zelensky, sulle inutili iconoclastie di Fedez e così via. Assai poco opportuna la polemica apparsa sui giornali fra dirigenza Rai e dirigenza del Festival (articolazioni della stessa azienda) sulla mancata comunicazione della presenza del nostro Presidente Sergio Mattarella.
Premesso che il Capo dello Stato ha conferito alla kermesse un autorevole sigillo di unità nazionale, credo che gli eventuali panni sporchi debbano sempre essere lavati in famiglia, senza dare sempre l’idea che il nostro Paese sia quello che il Poeta chiama «nave senza nocchiero in gran tempesta». Se i vertici non danno esempi di sobrietà, non ci si deve poi meravigliare se un ragazzino di scarsa maturità, non reggendo la tensione, dà in escandescenze sul palco e si mette a spaccare tutto. D’istinto non ho retto alla collera ma poi ho anche ricordato a me stesso che la buona educazione è fatta per un quarto di insegnamento e per tre quarti di esempio.
Questo Festival, diverso da quelli dei due anni precedenti, in un clima forse un po’ più ottimista dopo il terrore della pandemia, è stato meritatamente vinto da Marco Mengoni. Questo conferma che Sanremo ha la vocazione a essere luogo di talenti e di percorsi artistici. Rivelatosi come molti in un talent, Mengoni proprio sul palco di Sanremo ha notevolmente affinato le sue capacità interpretative, aggiungendole alla splendida voce la sagacia nella scelta dei brani. Quest’ultimo, un passaggio molto importante per qualsiasi cantante soprattutto a Sanremo.
Sì, perché un artista affermato a Sanremo non deve andarci per forza. Mentre si può capire che un esordiente accetti di cantare la qualsiasi pur di conquistarsi visibilità in un Festival come Sanremo, capisco meno perché una grandissima cantante come Giorgia, icona della canzone italiana, accetti di cantare un brano credo a lei non adatto, comunque incapace di arrivare al cuore o di non far vibrare un’emozione malgrado la sua fantastica voce. Inclino a credere che abbia ceduto ad altre necessità che un artista può avere. In generale sembra ci sia stato un soddisfacente mix fra tradizione e innovazione.
Quando si sperimenta, il rischio principale è quello del limite tra perdita del senso, cattivo gusto o ridicolo (e il Festival 2023 ha avuto qualche esempio dell’uno e dell’altro). Ma c’è stato, da parte dei giovani e di qualche antica colonna della musica italiana più di una interessante prospettiva. Come non ricordare lo scoppiettante, trionfale , Trio “ALMORA” Albano-Morandi-Ranieri che con il loro sunto nazionalpopolare di mezzo secolo in musica ha unito all’unisono milioni di spettatori italiani incollati al televisore nonché lezione ai giovani emergenti di talento e longevità artistica. Aspettiamo il prossimo febbraio 2024, quando il Festival di Sanremo sarà ancora assolutamente diverso ma assolutamente uguale a se stesso. E che ci dia sempre l’occasione di contaminarci con l’unico virus che ci fa bene: quello della musica.