Oggi ricorre la Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (MGF): una pratica disumana e violenta che ancora colpisce e devasta, nel fisico e nella mente, tantissime giovani donne.
Secondo le stime dell’OMS, sono coinvolte oltre duecento milioni di ragazze, tra cui purtroppo moltissime bambine, prevalentemente dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Asia e dell’America Latina o comunque appartenenti alle comunità provenienti da queste regioni.
Al riguardo si stima che siano state vittime di questa pratica circa seicentomila donne che vivono in Europa.
E forse non tutti sanno, perché purtroppo non se ne discute ancora a sufficienza, che anche in Italia si stima che ci siano tra le 40.000 e le 70.000 bambine che hanno subito questa mutilazione. Si tratta di numeri sconvolgenti.
Il motivo per cui i dati disponibili sono imprecisi è che si tratta di pratiche sommerse, dal momento che avvengono in ambito familiare, per cui le dette violenze non vengono denunciate.
Per mutilazione genitale femminile si intendono tutte quelle procedure che comportano l’alterazione o il danneggiamento dei genitali femminili, attraverso cui si attua una sorta di controllo sulla sessualità e sul corpo della donna.
Questa pratica è riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani.
Le mutilazioni comportano infatti delle conseguenze psicologiche e fisiche gravissime che accompagnano le vittime per tutto il corso delle loro vite.
Tra i disturbi fisici si possono menzionare dolori fortissimi, emorragie, infezioni croniche, problemi ad urinare, problemi mestruali, sterilità, formazione di fistole, incontinenza, formazioni di cisti e ascessi, compromissione delle sensazioni sessuali, complicazioni durante il parto, fino ad includere la morte, che può sopravvenire a causa delle emorragie provocate dall’amputazione dell’organo.
Per cui tale pratica non può in nessun caso essere legittimata come consuetudine religiosa o culturale.
Non solo e non tanto perché in nessuna delle scritture religiose in realtà ne viene fatta menzione, ma soprattutto perché si tratta di un crimine contro i diritti umani: viola il diritto alla salute (Art. 2, 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, d’ora in avanti CEDU), alla sicurezza e all’integrità fisica (Art. 5 CEDU), a non subire torture o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (Art. 3 CEDU), il diritto alla dignità e a non subire discriminazioni (Art. 14 CEDU), nonché il diritto alla vita (Art. 2 CEDU) ogni qual volta sopravvenga la morte.
Stiamo parlando dunque della violazione di diritti umani fondamentali in relazione ai quali, se abbiamo tutti un dovere morale di adoperarci, con riferimento ai fatti che avvengono sul territorio nazionale, lo Stato ha un vero e proprio dovere giuridico, cogente, di intervenire, adottando misure di contrasto efficaci, proprio in quanto Alta parte contraente della CEDU stessa.
Il problema in realtà è molto complesso e di difficile soluzione in quanto, come accennavamo, si tratta di crimini che vengono commessi sulle donne da altre donne. Generalmente sono le mamme che accompagnano le figlie verso questa mutilazione, per averla loro stesse subita da bambine. Non può infatti sottovalutarsi il profilo del danno psicologico connesso alla perpetrazione della violenza in ambito familiare. A parere di chi scrive la pratica risulta difficile da estirpare proprio per quel meccanismo psicologico di difesa che porta qualsiasi fanciullo a giustificare ad ogni costo la figura genitoriale (per evitare una dissociazione) e quindi a legittimare la pratica subita a livello profondo e dunque in definitiva a replicarla.
Ma proprio poiché sono le mamme che accompagnano le bambine, queste ultime non hanno alcuna possibilità di poter reagire o di trovare protezione. Si tratta di una tradizione violenta che viene tramandata di madre in figlia, sul corpo di bambine che non hanno alcuna possibilità di esprimere il proprio dissenso.
Con l’entrata in vigore della legge “Consolo” n. 7/2006, dal 02 febbraio 2006, è stato introdotto in Italia l’art. 583 bis del c.p., che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni, chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili.
Purtroppo però la repressione penale si è rivelata totalmente inidonea ad arginare questo fenomeno.
Dobbiamo infatti considerare che se addirittura le donne occidentali, per le quali i diritti umani sono entrati a far parte del patrimonio culturale e dei valori comunemente condivisi, fanno ancora molta fatica a denunciare le violenze e i soprusi subiti in ambito domestico, figuriamoci se possiamo aspettarci una reazione da parte delle vittime di questa pratica, che ritengono che questa sia la normalità. A maggior ragione trattandosi per lo più di bambine.
Peraltro il nostro ordinamento, sotto molti aspetti giustamente, non consente una “sorveglianza” preventiva nei confronti delle famiglie che possono apparire a rischio, al fine di prevenire la commissione del reato, in quanto il nostro è pur sempre un diritto penale del fatto.
Per cui l’unico modo per intervenire in maniera efficace è attraverso una compensazione culturale.
Sono necessarie massicce campagne di sensibilizzazione. È necessario un intervento a tutti i livelli, per intercettare le situazioni a rischio e creare un dialogo profondo con queste comunità. Per far comprendere che non si tratta di discriminare o criminalizzare la loro cultura ma solo questa pratica.
E il primo luogo dove si può intervenire è all’interno della scuola, con iniziative che coinvolgano le famiglie.
I numeri che abbiamo ricordato sono impressionanti proprio perché si tratta di dati attuali, non stiamo parlando di epoche passate e luoghi sperduti ma di crimini che vengono commessi ogni giorno sul territorio nazionale nei confronti di vittime prive di qualsiasi difesa.
Abbiamo tutti il dovere morale di determinare il cambiamento culturale necessario per debellare questa pratica degradante.