giovedì, 21 Novembre, 2024
Società

Il sorriso di Liliana

Splende. Su tutte le parole, i ricordi, le lacrime asciutte, il dolore cupo e abissale, splende. E’ il sorriso della Senatrice Segre. Consapevolmente sereno, luminoso, una gioia conquistata, una lacerante tristezza risolta, una pacatezza silenziosa e brillante. Splende.

Lo sguardo fermo, sicuro. Gli occhi due stilettate di forza vitale. Una dolcezza da cui traspaiono le Sue parole: “nelle notti ad Auschwitz ero fortissima”. Tutto passato. Tutto presente.

Entrare nel Suo sorriso è già “fare memoria”.

Contemplare i Suoi movimenti lenti, misurati, essenziali, lasciarsi affascinare dal Suo eloquio pacato, equilibrato, imperturbabile, mai astioso, avvicina al senso ultimo dell’esistenza: non odiare, o più chiaramente, perdonare. Lei dice di non aver perdonato, ma, tuttavia, di non odiare. Cos’è il perdono, al di là dell’atto formale pronunciato od esplicitato in qualche forma, se non lo scioglimento intimo, nell’animo, dei sentimenti negativi di odio o rancore per un torto subito… E quale torto.

Un cronista di guerra alcuni giorni fa, trovandosi nell’incapacità di riversare nella cronaca le emozioni di quel momento, ha detto che “non sono state inventate le parole per descrivere il dolore, lo strazio” che provano i parenti delle vittime civili in Ucraina nell’attesa di ritrovare e rivedere i corpi devastati ed esanimi dei propri cari.

La Presidente Roberta Metsola, nel tentativo di rendere più facilmente comprensibile l’entità della Shoah, ha così quantificato, con riferimento ad una tempistica impressionante ed agghiacciante: “Se osservassimo un minuto di silenzio per ogni vittima dell’Olocausto dovremmo restare in silenzio per undici anni”.

Lei, Liliana, la tredicenne dell’ultima Sua foto di ragazza coccolata e inconsapevole dell’inumano futuro incombente, arrestata e deportata per il solo torto “di essere nata”, Lei, tatuata 75190 di un incomprensibile, indefinibile, orrendo, mostruosamente tragico campo di sterminio, Lei, che ha attraversato nel Suo ingenuo fiorire di giovane donna, che non aveva conosciuto la guida e l’abbraccio comprensivo della propria madre, la brutalità più crudele che la spietatezza umana possa concepire, Lei, oggi, ci regala un sorriso che aiuta noi a riconciliarci con la bellezza della vita, che ci solleva dal turbamento raro in cui si sprofonda mentre si ascolta, muti, attoniti, il Suo confidenziale, intimo, sussurrato racconto.

Grazie, Liliana, parlo alla bambina che tornò stravolta, trasformata, disorientata, nella ritrovata “civiltà” radicalmente dissonante e distante, però, dalla Sua maturità vorticosamente sviluppatasi nell’attraversamento di deportazione, lavori forzati, marcia della morte e peregrinazioni.

Grazie, per raccontarci anche che ha “conosciuto l’amore” e che “una mamma che allatta non può odiare”.

In questo tempo travagliato, difficile, Liliana, mi permetta, grazie per il Suo sorriso.

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