“Bbon capo-d’ajjo1 a llei, sora Maria.
Nun c’è arisposta? E cche vvor dí? Vve fanno?
Eh oggi s’ha da vive in alegria
E nnun pijjasse de ggnisun malanno.
Anzi, io volevo, per nun dí bbuscía,
che ffascessimo inzieme un contrabbanno;
ché cquer che se fa oggi, sposa mia,
poi se seguita a ffà ppe ttutto l’anno…”
Così scriveva Gioacchino Belli nel 1832 in un sonetto intitolato “Er bon capo d’anno”. E come ogni inizio d’anno tutti ci ritroviamo a fare gli stessi bilanci, a guardare dentro le pieghe dei giorni e indagarne la qualità, i successi, gli errori, le gioie e i dolori. Un anno concluso e un altro che si approssima mantengono in ognuno di noi un potere quasi taumaturgico, veicolano sentimenti di rinnovamento a volte entusiastici e la speranza intera che ogni inizio porta con sé. Il difficile viene vivendo, perché dentro ogni anno, noi portiamo noi stessi e il mondo in cui siamo immersi, camminiamo insieme ai nostri vizi, alle abitudini radicate che brindano alle nostre spalle mentre noi brindiamo a un futuro migliore.
Giacchino Belli, due secoli fa, questo lo aveva compreso bene; profondamente aveva colto la natura umana e la conseguente società che questa crea, per questo nei suoi sonetti metteva l’essere umano di fronte ai suoi guadi, sperando che qualcuno imparasse a camminare bene sulla strada dell’esistere. Ottima scelta è stata quindi quella del teatro Argentina di concludere l’anno offrendo al pubblico la voce del grande regista e interprete Massimo Popolizio, quale interprete dei Sonetti erotici e filosofici di Gioacchino Belli, con il commento del poeta, docente universitario e critico Valerio Magrelli, per restituire sulla scena la Roma di oggi e di sempre, riscoprendo il celebre spirito di un popolo che appariva al poeta come una “grandiosa macchina parlante”, tutt’uno con le piazze e i monumenti della città. Tra i versi affilati, cinici, disperati, erotici e rivoluzionari del cantore della Città eterna più acclamato di tutti i tempi, Gioachino Belli, abbiamo trovato l’amore carnale, la morte, il potere corrotto, la celebrazione della città e il sentimento di pietà. «Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio»: così scriveva il Belli nell’introduzione ai suoi Sonetti, la ricca raccolta in dialetto che ne decretò la fama, testimoniando la lingua e lo spirito del popolo romano. «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza». In questo scenario i Sonetti vanno al di là di Roma stessa, diventano una vera e propria materia poetica che fa di Roma il mondo. Niente di pittoresco, i Sonetti sono cattivi, non assolutori, cinici, disperati, rivoluzionari.
Il dialetto si trasforma in una vera e propria lingua d’arte senza tempo in grado di fare i conti con la modernità e dirci qualcosa di nuovo sul nostro presente. Così Popolizio e Magrelli hanno restituito alla scena i versi che il Belli stesso, cronista severo della sua epoca, immaginava destinati all’ascolto ancor più che alla lettura. Sul palco si sono alternate tre acute intelligenze al lavoro: quella del mitico poeta, penna arguta e irriverente dell’Ottocento, e quelle del grande interprete contemporaneo e di una delle voci più raffinate della poesia italiana, insieme per farsi strumento e guida tra i versi belliani che hanno accompagnato il pubblico per le strade di una Roma senza tempo. La buona notizia è che Popolizio riproporrà in futuro questo spettacolo, così da permetterci di coltivare una critica con la quale nessuno è mai del tutto completamente pacificato: così è la virtù, se non la si esercita la si perde.