Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano parla del lento decadimento dell’Istituto penitenziario minorile.
Nessuno dei sette ragazzi evasi dal Cesare Beccaria stava scontando una pena definitiva. Erano reclusi per piccoli reati, dovuti a spaccio e uso di sostanze stupefacenti, nessuna condanna per atti di violenza. Cinque sono lombardi, uno è cittadino marocchino, l’ultimo equadoregno. Proprio quest’ultimo, 18 anni e membro della Z4 Gang, è stato ricatturato dagli agenti vicino alla casa della suocera. Al Pm ha detto: “Ho sbagliato, non volevo evadere, ma mi sono fatto trascinare”. Anche altri due sono già stati nuovamente riportati in carcere. Perché la situazione del penitenziario di Milano sia degenerata nel corso degli anni, passando da istituto modello da seguire a modello da non seguire, lo abbiamo chiesto a Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano.
Quali le cause principali della decadenza di questo carcere che prima era una eccellenza?
Ci sono due questioni rimaste irrisolte per 15 anni. Prima di tutto manca un direttore stabile, duraturo e competente anche in materia di rieducazione dei minori. Il secondo problema riguarda i cantieri. Al Beccaria ci sono sempre lavori in corso e non si arriva mai a realizzare un’opera definitiva e bella; non si riesce a ricostruire l’istituto come era alle origini, un gioiello di istituzione penitenziaria per i minorenni anche dal punto di vista logistico e strutturale. È da un direttore stabile che dipende l’organizzazione sinergica dei servizi.
Oltre a un responsabile, cosa manca per portare a termine un progetto organico?
Ci sono tante risorse impiegate nel Beccaria dal Comune di Milano, dalle Fondazioni al volontariato, tutto questo, però, va messo in sinergia in un progetto educativo. Serve armonia. C’è buona volontà e serietà da parte di tanti, ma le diverse iniziative devono essere ricondotte a unità. Un cantiere permanente determina anche mobilità e instabilità dal punto di vista logistico. Le camere di pernottamento dei ragazzi del Beccaria sono fatiscenti e oltretutto più brutte di quelle degli adulti. Se visitiamo una cella a San Vittore o a Bollate, vediamo che da un punto di vista estetico sono più accettabili. Al Beccaria le pareti sono grigie e sporche, i lettini sono attaccati uno all’altro. Tali mancanze possono alcune volte alimentare un sentimento di frustrazione e rabbia. Il Beccaria non è San Vittore, Bollate o Opera. Nel tempo, ha rappresentato una storia a parte rispetto ad altre carceri minorili per l’eccellenza, lo è ora per la sua negatività e criticità.
Secondo lei la nostalgia degli affetti, forse più forte sotto Natale, può aver giocato un ruolo in questa scelta così avventata da parte dei ragazzi?
In questi giorni tanto si è discusso sulla vicenda della fuga e, in modo ideologico, ognuno con una propria visione: c’è chi reclama più polizia, chi più educatori, chi attribuisce la responsabilità di quello che è successo ai maggiorenni presenti in struttura. Io da anni sto denunciando che è inammissibile che ragazzi milanesi, che hanno le famiglie in Lombardia e che devono essere rieducati, vengano tradotti in istituti a più di mille chilometri di distanza da Milano. Mi chiedo come si possa praticare un progetto rieducativo su ragazzi che sono così distanti rispetto alle possibilità offerte dalla propria città di origine.