sabato, 16 Novembre, 2024
Società

Al Bambin Gesù di Roma i supereroi consolano i veri piccoli eroi

Accade alle volte che cerchi un segno di grazia, qualcosa che somigli alla leggerezza di ali delle fate, succede a qualsiasi età. Accade soprattutto da grandi, perché crescendo si perdono via via pezzetti di sogno, si diventa come dei Pollicino, ma disillusi, perché quelle briciole lungo la via dell’esistenza non sono un sentiero a cui riferirsi per tornare a casa, sono piuttosto briciole di anima che cadono arrese alla forza di gravità dell’esistenza, che costringe solo a toccare, contare, comprare. La grazia invece è trasparente, impalpabile, infinitamente senza prezzo, per questo la si invoca di più da grandi, perché la si riconosce meno. I bambini no, i bambini sanno ancora sentire, distinguere, credere, anche nel dolore, anche durante la malattia. Gli ospedali pediatrici sono pieni di eroi, alcuni in camice bianco, la maggior parte vestita con pigiamini colorati.

Questi piccoli eroi imparano presto cose che di solito fanno gli adulti: sanno contare quanta pipì si raccoglie nelle sacche del catetere e capiscono se i loro reni stanno meglio o no; sanno contare i punti sul torace e comprendono quanto è in affanno il loro cuore; sanno contare i capelli persi e decifrano quante cellule del loro corpo stanno facendo la guerra tra loro. Sanno contare infine quante volte si corruga la fronte di medici e infermieri, quante volte mamma e papà si asciugano di nascosto una lacrima e sanno decifrare quanto tempo ci vorrà prima di uscire dall’ospedale, prima di tornare a quella che tutti chiamano una vita normale, mentre tutti dovrebbero trattarla come un miracolo.

I bambini in ospedale sono eroi perché sanno riconoscere il miracolo, ma, soprattutto, riescono a sorridere mentre il miracolo lo aspettano, anche quando non arriva. Ieri in ospedale, al Bambin Gesù di Roma ho incontrato dei supereroi, uomini e donne, vestiti con i costumi degli idoli dei bambini, che camminavano in cortile, dopo aver fatto visita e consolato i veri piccoli eroi di questo ospedale, che da tutta Europa viene raggiunto, per poter scrivere il capitolo “futuro” di migliaia di piccole vite. Non è cosa da poco dare il proprio tempo a chi di tempo ha fame, è un piccolo dono di nobiltà e di riequilibrio con la sorte. Negli anni sono diverse le Associazioni che si sono spese per questo, dalla “Supereroi acrobatici”, dalla “Tabor International”, al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.

È stata realizzata anche la “Casa del SuperEroe”, dall’associazione “uno…due…tre…Alessio Onlus”, per offrire accoglienza ai piccoli pazienti e alle loro famiglie. Perché l’ospedale quando si è malati diventa una casa, come testimonia la lettera di un paziente cresciuta dentro il Bambino Gesù: “Sono stata una bambina dal cuore malato, spaventata e innamorata della vita. E temo di essere stata un pessimo paziente, uno di quelli diventati grandi in ospedale, che anno su anno perdeva pezzettini della resilienza che porta in sé il cuore del bambino.

Probabilmente logorroica già da piccola, quando, durante la degenza del primo intervento, tenevo tutta la notte le infermiere a chiacchierare perché non riuscivo a dormire.

Apparivo nella cucinetta della corsia e loro, delicate e gentili, mi preparavano una camomilla che sorseggiavo con le gambe penzoloni dalla sedia e le manine intorno alla tazza. Da grande no, da grande è stato diverso. Il senso della perdita è stato più forte della voglia di rialzarmi. E invece in ospedale accadono anche eventi che hanno le sembianze del miracolo, immeritati forse ma inconquistabili altrimenti.

Perché io sono viva. Le mie operazioni sono state due, i miei padri elettivi altrettanto: i miei chirurghi, quelli che mi hanno insegnato a conoscere e riconoscere i miei limiti temporanei e ad usarli per vivere, mai per ripararmi dalla vita. Mi hanno insegnato a lottare per la vita, sempre prestando attenzione alle mie parole, mi hanno insegnato a credere nei miei sogni, a fare delle difficoltà affrontate i camminamenti progressivi di un ponte gettato tra il presente e il futuro, ad osare e anche quanto si sia soli quando si osa. Nel percorso ho trovato molti affetti, tra i medici e gli infermieri, gente di casa mia, perché è cosi che ho sentito questo ospedale e le sue corsie: casa mia. E oggi, scrivo questa lettera da un treno che mi sta conducendo a casa, dall’uomo che amo, in questo mondo che è diventato casa mia. Per ricordarmi e ricordarvi a che cosa serve l’essere stati malati e la corsia che si è abitato con la stessa intimità della propria casa.

Aver fatto l’esperienza della malattia insegna a vivere la vita con pienezza, a considerare prezioso il minuto, a scegliere il sentiero più adatto alla propria anima, a non dilapidare talenti, a difendere i sogni, a guardare i tramonti, a non trattenere la parola ai sentimenti.

E anche il pensiero della possibile morte educa a vivere davvero, per morire una volta solamente, paghi e non stanchi della vita. Infine una preghiera la rivolgo ad ogni genitore, perché l’amore e la preoccupazione per i propri figli momentaneamente malati non diventi timore di lasciar loro fare l’esperienza piena dell’esistere, perché il dolore non diventi laccio alle ali di tutti. L’ospedale rappresenta la casa provvisoria che ci restituisce all’esistenza. Questa è la mia gratitudine per questo luogo che non dimenticherò mai, questa la mia preghiera per ogni bambina e ogni bambino. Una paziente”.

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