In Israele si rivota per la quinta volta in tre anni e mezzo. Ma vediamo i motivi e gli scenari. Lo scorso 20 giugno, l’allora primo ministro israeliano Naftali Bennett e l’attuale primo ministro Yair Lapid hanno annunciato, in una sensazionale dichiarazione in tv, che a causa di alcune cruciali defezioni erano costretti a porre fine, dopo solo un anno, al “governo del cambiamento” (composto da otto partiti, tra cui formazioni di destra, di centro e di sinistra, laici e arabi islamisti). Dieci giorni dopo la Knesset si auto-scioglieva ufficialmente, mandando gli israeliani alle urne per la quinta volta dal marzo 2019, in un arco di tre anni e mezzo. Alla scadenza del 15 settembre, dopo due mesi e mezzo di manovre e trattative, sono state presentate 39 liste di candidati ufficialmente abilitate a competere per la prossima Knesset, che sarà la 25esima nella storia di Israele. Come nelle tornate precedenti, gran parte di queste liste è destinata a non superare la soglia minima di ingresso (3,25% dei voti validi). I 13 partiti presenti nella 24esima Knesset risultano in parte riconfigurati.
Il partito del ministro della difesa Benny Gantz si è fuso con il partito Tikva Hadasha (Nuova Speranza) del ministro della giustizia (uscito dal Likud nel dicembre 2020). I due hanno reclutato l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot e l’ex membro di Yamina e ministro degli affari religiosi Matan Kahana, creando il nuovo Partito di Unità Nazionale). Yamina (A destra) ha cessato di esistere.
Bennett, uno dei fondatori, ha annunciato che non si sarebbe candidato alle nuove elezioni, mentre la sua alleata storica, la ministra dell’interno Ayelet Shaked, si è messa alla guida di Habayit Hayehudi (Casa ebraica), il partito che lei e Bennett avevano lasciato nel 2018. Le quattro formazioni arabo-israeliane che si sono presentate insieme nel 2020 ottenendo 15 seggi ma si sono divise in due prima delle scorse elezioni, si sono ulteriormente divise in vista delle prossime. Ora sono in corsa tre liste arabe: Hadash-Ta’al, guidata dai parlamentari Ayman Odeh e Ahmad Tibi; Ra’am, guidata dal parlamentare islamista Mansour Abbas (membro della coalizione di governo uscente); e Balad, guidata dal parlamentare Sami Abou Shahadeh. Le formazioni delle sinistra sionista Meretz e HaAvoda (partito Laburista), quella di estrema destra HaZionut HaDatit (Sionismo Religioso) e il partito di maggioranza relativa (ma attualmente all’opposizione) Likud hanno tenuto le rispettive votazioni primarie. Nel Meretz, la ex leader Zehava Galon è subentrata all’attuale ministro della salute Nitzan Horowitz, che ha lasciato la guida del partito. I Laburisti hanno rieletto l’attuale ministra dei trasporti Merav Michaeli, ma gli iscritti hanno anche privilegiato volti più giovani e nuovi, mettendo in cima alla lista Na’ama Lazimi e Gilad Kariv al posto di laburisti veterani come gli attuali ministri della pubblica sicurezza Omer Bar Lev e degli affari della diaspora Nachman Shai.
Nessuna sfida per l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, attuale leader dell’opposizione, confermato senza vera gara alla testa del Likud. Circa la lista, un certo numero di lealisti di Netanyahu come Yariv Levin, Eli Cohen, David Amsalem, Yoav Kisch e Miki Zohar hanno guadagnato posizioni entrando nei primi 10 posti rispetto a veterani come Tzachi Hanegbi e Yuli Edelstein che hanno perso terreno. In ogni caso, i sondaggi attribuiscono al Likud la piena conferma dei suoi attuali 30 seggi. Alla vigilia del voto di domani, martedì 1 novembre, il trend più evidente ed eclatante è l’ascesa di Ben-Gvir. In base ai sondaggi il suo partito raggiungerebbe i 14 seggi (più del doppio di quelli attuali), sottraendo voti al Likud e ai partiti religiosi: ciò non cambierebbe di molto l’equilibrio di forze fra il blocco pro-Netanyahu e il blocco avversario, ma posizionerebbe la formazione di estrema destra come terzo partito della Knesset, dopo il Likud e Yesh Atid di Lapid: e questo grazie soprattutto a Ben-Gvir, un personaggio molto controverso, ampiamente considerato un super estremista: la sua capacità magnetica di attrarre mass-media ed elettori è diventata una preoccupazione anche per i suoi alleati. Per quanto riguarda l’esito complessivo delle elezioni, rimane centrale la questione della soglia d’ingresso (quorum) e quindi dell’affluenza alle urne: sia in generale, sia di alcuni settori specifici dell’elettorato (come quello arabo).
Al momento Shaked (Casa ebraica) sembra lontana dalla soglia del 3,25%: se non si ritira dalla corsa, potrebbe disperdere decine di migliaia di voti che servirebbero a Netanyahu. Dall’altra parte, ci si aspetta che lo stesso faccia il partito arabo Balad, disperdendo migliaia di voti anti-Netanyahu. Anche le altre formazioni arabe paiono a rischio dispersione. Stando agli ultimi sondaggi, Meretz e Labour dovrebbero invece farcela, ma anche loro non sono fuori pericolo. In sintesi, il risultato complessivo delle elezioni potrebbe essere determinato in gran parte dalla capacità o meno di questi partiti di superare il quorum ed eleggere tre o quattro loro candidati. Ecco i tre principali scenari che si possono ipotizzare per il dopo 1 novembre. Se il blocco che sostiene Netanyahu ottiene 61 seggi e può formare il governo, sebbene con una maggioranza estremamente risicata. In questo scenario, Ben-Gvir e Smotrich diventerebbero ministri, oltre a un certo numero di politici ultra-ortodossi. Il Likud costituirebbe il grosso del governo, ma la tenuta del governo dipenderebbe molto dalle formazioni estremiste e ultra-ortodosse.
Il secondo scenario è che riescano a formare il governo Lapid o Gantz.
Con i numeri al momento prevedibili ciò comporterebbe che riuscissero a ottenere il sostegno non solo di tutti i partiti che formano l’attuale coalizione, ma anche di qualche formazione ultra-ortodossa transfuga dal blocco avversario, o che si verificasse un ammutinamento anti-Netanyahu all’interno del Likud:
entrambi sviluppi che appaiono poco probabili. Questo scenario vedrebbe la nascita di un governo estremamente variegato, caratterizzato dallo stesso tallone d’Achille di quello oggi uscente. Il terzo scenario, tutt’altro che improbabile, è che nessuno riesca a formare una coalizione di governo e Israele debba andare di nuovo a elezioni anticipate, per la sesta volta in quattro anni. “Tutto dipende in realtà da un seggio in più o in meno, il che equivale a circa 45.000 elettori – spiega Gad Barzilai, ex preside di Giurisprudenza dell’Università di Haifa-.
In caso di nuovo scioglimento della Knesset, Lapid resterebbe in carica come primo ministro dimissionario e l’attuale governo andrebbe avanti, ma senza una legge di bilancio per il 2023 e con il paese virtualmente bloccato. (ITALPRESS).