La riforma della previdenza da priorità è salita a livello di allarme rosso. Lo ha sottolineato il premier Giorgia Meloni nel suo discorso programmatico, rivendicando un impegno per i giovani per disinnescare una “bomba sociale”; lo ha ribadito il neo ministro del lavoro Marina Calderoni che annuncia la convocazione dei sindacati per ascoltare le richieste delle parti sociali. Infine, il tempo per una riforma è finito. Tra 60 giorni – in assenza di cambi e proroghe – si tornerà alla contestata legge Fornero: pensione a 67 anni per tutti dopo 42 anni e dieci mesi di contribuzione (un anno in meno per le donne). Sul tavolo si accavallano le ipotesi di riforma con sponsorizzazioni politiche diverse. Con annunci che però non fanno i conti con una situazione economica incerta e con prospettive al ribasso.
Il nodo delle risorse
Tanto per iniziare la spesa pensionistico globale avrà una impennata. Per il 2023, soprattutto a causa dell’inflazione, il costo per lo Stato aumenterà dello 0,7% del Pil, cioè 13 miliardi di euro. E sono solo gli aumenti previsti per arginare l’erosione della inflazione. In termini generali sui costi e settori di spesa si fa riferimento alla fotografia scattata dall’Inps nel suo ultimo rapporto. I trattamenti previdenziali assorbono il 92% della spesa, mentre quelli assistenziali (prestazioni agli invalidi civili e le pensioni e gli assegni sociali) il restante 8%. Il costo per prestazioni previdenziali nel 2021 ha raggiunto i 312 miliardi. La voce che incide maggiormente sulle uscite è quella delle pensioni di anzianità/anticipate (il 56% del totale), seguita dalle pensioni di vecchiaia (il 18%) e dalle pensioni ai superstiti (14%). Le prestazioni agli invalidi civili rappresentano il 7% del totale e le altre due voci (pensioni di invalidità e pensioni e assegni sociali), rispettivamente, il 4% e il 2%.
Un sistema in disequilibrio
Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo ha sottolineato. La priorità per il futuro sarà un sistema pensionistico “che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo”. La questione è definita dal premier, “una bomba sociale che continuiamo a ignorare ma che investirà in futuro milioni di attuali lavoratori, che si ritroveranno con assegni addirittura molto più bassi di quelli già inadeguati che si percepiscono attualmente”. Il problema è doppio: creare maggiore lavoro stabile, più assunti e più gettito per le casse dello Stato; così si migliorano i livelli pensionistici. Attualmente, invece, la previsioni di un ulteriore disequilibrio tra lavoratori e pensionati preoccupano non solo l’Italia ma anche altri Paesi europei. Entro il 2050, secondo le stime dell’Ocse il rischio è di un rapporto uno a uno o addirittura di più over-50 fuori dal mondo del lavoro che lavoratori.
Di fronte al rapido invecchiamento della popolazione, l’Ocse invita i governi a promuovere “maggiori e migliori opportunità di lavoro in età avanzata per proteggere gli standard di vita e la sostenibilità delle finanze pubbliche”. Nel contempo bisognerà trovare lavoro stabile ai giovani. In assenza i sindacati propongono che sia lo Stato a subentrare ai versamenti previdenziali in modo da coprire i periodi di discontinuità lavorativa.
Riforma, flessibilità e costi
In questo scenario le proposte sono caute. Bisogna tenere sotto controllo i costi e per tutti i partiti trovare una mediazione sulla flessibilità in uscita. Per i tecnici del ministero dell’Economia e Finanze sarebbe un buona ripartenza con Quota 102 o 103 – schema già introdotto dal governo Draghi per il 2022 (uscite con 64 anni e 38 di contribuzione), – il costo, sarebbe sotto il miliardo per le nuove pensioni.
Proroghe e nuove ipotesi
In questo “pacchetto” rientra il prolungamento di Opzione donna e Ape sociale. Nel Centrodestra la Lega è in pressing su Quota 41, (requisito anagrafico minimo: 61 o 62 anni) con taglio di età per alcuni tipi di lavoro. Scelta che non dispiace ai sindacati, ma che ha un costo elevato. Secondo stime Inps, oltre 4 miliardi il primo anno (quasi 10 a regime). C’è poi la recente proposta elaborata da Fratelli d’Italia, la cosiddetta “Opzione uomo”, che ricalca il sistema di Opzione donna (ricalcolo contributivo dell’assegno) consentirebbe ai lavoratori di andare in pensione con 61-62 anni d’età e un minimo di 35 anni di versamenti. Sui tagli all’assegno in caso di richiesta di ulteriore anticipo di uscita dal lavoro, la discussione rimane aperta. Si discute, infine, su Quota 103. I requisiti richiesti non sarebbero rigidi a differenza dell’attuale Quota 102 (uscite con 64 anni e 38 di versamenti) , ma sarebbero elastici partendo comunque da una soglia anagrafica minima di 61-62 anni. La pensione di vecchiaia, invece, resta 67 anni con 20 anni di contributi, almeno fino a dicembre 2024
Un fine anno difficile
Il tempo stringe per una riforma globale. Probabilmente e realisticamente ci saranno proroghe. I sindacati sollecitano il massimo impegno sulla riforma, che dovrà puntare ad avere flessibilità in uscita, un piano per i giovani, e assegni più pesanti. Le Associazioni di categoria premono sulla necessità di concordare prima della fine dell’anno una soluzione. Le attese maggiori, tuttavia, sono rivolte al Ministero dell’economia, oggi presieduto dal ministro Giancarlo Giorgetti, che dovrà fare i conti con un Pil in discesa, con meno risorse in cassa, e un fine anno complicato dal caro bollette e dalla ricerca di fondi per soddisfare tutte le aspettative di aiuti da dedicare a famiglie e imprese.