Tra le mille emergenze italiane, una illustra bene i ritardi in cui il sistema Paese mostra il lato peggiore. Si tratta della formazione, in una Italia dove si adora il cellulare iniziando dai ragazzi fino agli adulti, la competenza tecnologica media è a livello della Turchia. L’italiano è refrattario ad ogni possibilità di migliorare le sue competenze nel lavoro e nella professione, soprattutto se si parla di innovazione tecnologica. Se c’è una diffidenza è verso tutto ciò che può essere annunciato come nuova formazione, il migliorare le proprie conoscenze da riversare poi nelle attività, una chiusura a scapito del mercato del lavoro, della competitività e produttività, e quindi anche della stabilità del lavoro e nuove opportunità occupazionali. Per l’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e sviluppo economico) per l’Italia “è urgente”, darsi una mossa sul fronte della formazione continua, senza perdere altro tempo pena una batosta sul piano della tenuta occupazionale.
I dati riportati dall’Ocse sono spesso impietosi. A cominciare dal 38% degli adulti che in Italia ha scarsi livelli di competenze linguistiche e di calcolo, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse. Pesa poi la questione demografica: ci sono 3,5 persone anziane (sopra i 65anni) ogni dieci adulti in età lavorativa, il più alto tasso nell’Ocse dopo il Giappone, con la prospettiva di un quasi raddoppio di tale tasso entro il 2050. Inoltre mentre l’automazione potrebbe travolgere il 50% delle mansioni, in pochissimi accedono ai corsi professionali proposti anche dalla aziende. Mentre i dati dicono il salto produttivo è a favore proprio quelle imprese che riescono a innovarsi coinvolgendo nel processo produttivo le maestranze.
È il caso di numerose eccellenze italiane soprattutto nel campo delle piccole medie imprese che hanno fatto sforzi imponenti, spesso partendo da zero, per imporsi sui mercati e in tutti i settori produttivi, da quello agricolo a quello tecnologico. A parte i casi di eccellenza i livelli formativi sono la metà della media europea. Se poi si analizzano i dati la situazione diventa problematica, perché la percentuale di adesione a progetti formativi scende al 9,5% per gli adulti con competenze basse e al 5,4% per i disoccupati di lunga durata, cioè le fasce che avrebbero invece maggiormente bisogno di training.
La svolta non si intravede perchè i percorsi formativi per funzionare dovrebbero essere collegati ai processi produttivi, mentre per anni la formazione in Italia è stata sinonimo di lavori di estetista, parrucchiera, tornitore, saldatore. Magari scelte positive per i giovani in cerca di una attività proprio o in inserimento occupazionale, ma in generale non si è riusciti ad aiutare il sistema produttivo ad assicurare agli adulti di restare da protagonisti in un mondo del lavoro che continua a cambiare, a poter progredire nel lavoro e non essere vittime, ad esempio, di ristrutturazioni. “L’Italia”, sottolinea lo studio, “uno dei paesi Ocse con la più bassa corrispondenza tra priorità identificate e attività di formazione erogate”.
Studi e ricerche sulla crisi formativa ci sono, si cerca, di dare un maggiore appeal ai corsi e le imprese che puntano olla formazione sono anche raddoppiate negli anni, ma spiegano gli analisti “il punto di partenza dell’Italia era molto basso”. Risalire la china non sarà facile, pur tralasciando i raffronti con gli altri Paesi Europei, il dato negativo più significativo è che solo il 30% dei lavoratori con mansioni a rischio di essere estromessi per scarse competenze nel settore dell’automazione, ha deciso di partecipare a corsi di formazione tecnologica. Un livello basso condiviso con la Grecia.
Le ore formative scelte dai lavoratori italiani sono quelle obbligatorie, per la sicurezza e la salute, che focalizzano l’attenzione, mentre è fuga verso i corsi di aggiornamento professionali. Il tutto mentre la stragrande maggioranza del complesso reticolo produttivo nazionale è fatto da piccole imprese dove i concetti di innovazione e ricerca, oltre ad essere costosi, non hanno un ruolo prioritario. Il problema, tuttavia, non è solo delle imprese o delle maestranze, sarebbe anche ingrato oltre che illogico dare tutta la responsabilità a loro, ma il nodo rimane come per molte altre cose in Italia, per il gravitare di una burocrazia che pesa sulla richiesta di finanziamenti per attivare i percorsi formativi.
Spesso le spese per il training ricadono così sulle spalle dei lavoratori: in Italia il 28% dei partecipanti alla formazione ha contribuito finanziariamente al training. La spesa pubblica per la formazione, infatti, nel contesto delle politiche attive del lavoro è molto bassa rispetto ad altri paesi Ocse (3,3% del Pil pro capite per disoccupato contro il 19% della Danimarca) e pochissime sono le imprese che beneficiano di sussidi pubblici o di incentivi fiscali per fornire formazione. Inoltre da anni sono state sospese le risorse pubbliche erogate dalle regioni per la formazione professionale.
Non solo negli ultimi anni il governo ha effettuato dei prelievi al contributo dello 0,30% normalmente destinato ai Fondi Paritetici Interprofessionali per la Formazione Continua, sottolinea l’economista Alessia Forti in un report al Sole 24 Ore, che ha seguito più da vicino la parte italiana del rapporto. Ad esempio, nel 2017, solamente il 58% dei contributi versati dalle imprese sono stati effettivamente usufruiti dai Fondi.
Mentre inizialmente i trasferimenti sono stati utilizzati dal governo per finanziare misure di welfare nel contesto della crisi economica, dal 2015 in poi i prelievi sono diventati strutturali, diminuendo così le risorse a disposizione per finanziare la formazione continua. Insomma, l’impressione è che l’Italia non stia andando nella direzione migliore. Sul futuro gravitano le incognite maggiori perché per l’Ocse l’Italia non ha ancora attuato politiche capaci di dare una svolta vera e quindi il Paese per l’Organizzazione per la cooperazione sociale ed economica, rischia di perdere la sfida più importante che è quella dei cambiamenti tecnologici e produttivi che ci riserva il prossimo futuro.