Con un certo ottimismo e molta curiosità mi accingevo a studiare – alla mia età! – le nuove norme sul processo civile che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) entrare in vigore il 30 giugno 2023.
Ottimismo presto trasformatosi in rassegnazione, se non proprio in pessimismo, per due considerazioni immediate: (i) la formulazione delle modifiche e delle nuove norme introdotte, più burocratica che giuridica; (ii) il corpo fenomenale di leggi, che investono tutti i quattro codici (civile, penale ed i due processuali), leggi varie, gli istituti della mediazione e della negoziazione assistita e che istituiscono il “Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie”.
Fin qui, pazienza. La burocratizzazione dei testi di legge è un fenomeno deleterio, ma inarrestabile.
Io rimango innamorato dell’art. 832 del codice civile che in due righe regola il diritto di proprietà, senza neppure definirlo, ed in maniera tale che la norma si è adeguata senza necessità di mutamenti al differente concetto di proprietà tra il momento della sua promulgazione (1942) ed oggi: semplicemente perché quello due righe prevedevano tutto, dalle considerazioni di Rodotà sulla funzione sociale della proprietà, a quelle di Scozzafava sul contenuto del diritto nell’ambito dell’Unione Europea. Col sistema di oggi avremmo avuto una norma “monstre” non riesco neppure ad immaginare di quanti commi, né di quanti articoli bis, ter… sexiesdecies composta.
Pazienza anche per l’impressionante volume di norme mutate ed introdotte (318 pagine!): sarà necessario solo uno sforzo maggiore nello studio.
Mi fermo qui, tranquillizzando chi mi legge: non voglio scrivere un articolo scientifico, ma solamente svolgere alcune considerazioni da “cittadino”, su due o tre cose che da subito non mi piacciono del nuovo processo civile.
La principale è rappresentata dall’incremento delle competenze del giudice monocratico. Si tratta di una soluzione già sperimentata e fallita. L’intento dichiarato era di evitare che ad un solo giudizio si dedicasse un collegio di tre giudici. Ma non si considerava che il collegio si costituisce solo nel momento decisionale e che il giudizio nella fase dell’istruttoria è seguito dal solo giudice istruttore e che la redazione della sentenza è curata dal solo giudice estensore. L’unico risultato ottenuto, non essendo stati ridotti i tempi per effetto di tale soluzione, è quello della “preturizzazione” del Tribunale. Per farvi capire – senza scomodare i “pretori d’assalto” che dalla fine degli anni ’60 in poi diedero origine ad un diverso tipo di magistratura, rispetto a quella più “ingessata” del primo dopoguerra – il pretore, non essendo vincolato ad un giudizio collegiale, poteva decidere i casi secondo il suo sentire. Ho praticato la Pretura di Roma nei primi anni della mia attività. Benché fosse una grande Pretura (con sette sezioni ed un centinaio di giudici, se non ricordo male) si conosceva l’esito della causa a priori, in base al giudice che ti capitava: c’era quello che trovava sempre un cavillo per non concedere o ritardare uno sfratto; e quello della stanza accanto che, invece, era inflessibile con gli inquilini e li sanzionava anche per inadempienze minime. Il pretore pro-lavoratore e quello “padronale”. Una lotteria, insomma. L’autonomia del giudice – istituto giusto ed oggettivamente intangibile – non poteva imporre l’adeguamento ad una soluzione giuridica che non lo convinceva personalmente. Da qui le decisioni “anomale” (ma anche quelle innovative, bisogna onestamente dire). Il “collegio”, imponendo una decisione condivisa, trova il freno degli altri due giudici, che possono non convenire sulla decisione, evitando soluzioni meno conformi come quelle che oggi capitano sempre più spesso.
La seconda considerazione – quella più sostanziale e contro la quale civilmente (ma inutilmente) da sempre mi ribello – è dato dalla sudditanza del cittadino, rispetto all’apparato giudiziario.
Non davanti al giudice, badate. Essere al cospetto del giudice civile è anzi il momento più esaltante dell’essere cittadino perché il giudice è l’autorità che riconosce al cittadino – rappresentato dal suo ad-vocatus – il suo diritto e lo afferma contro chiunque: anche contro lo Stato.
Sudditanza che è pari nel civile quanto nel penale e che consiste in quella grande sostanziale ingiustizia di non celebrare immediatamente il processo.
Ritardo che nel processo civile è ascrivibile all’organizzazione degli uffici ed alla inesistenza di termini perentori per chi giudica.
Per fare capire chi non è addetto ai lavori. I termini dati alle parti sono sempre brevi e perentori.
Se non si fa quella notifica entro quel giorno si decade dal diritto; se non si deposita quel documento entro il termine fissato non lo si può depositare più.
I termini degli uffici sono solamente “ordinatori”: indicano un tempo in cui sarebbe ottimale compiere una certa attività (ad es.: depositare la sentenza entro novanta giorni; fissare l’udienza entri un certo termine) ma se non lo si fa non succede nulla. Subentrano, infatti, le ragioni d’ufficio: carenza di organico, eccessivo carico di lavoro, arretrati da smaltire. Eventi che giustificano qualsiasi inadempienza e qualsiasi ritardo. E che non comportano conseguenze per la disorganizzazione o la negligenza che le determina: ma soltanto quelle negative per le parti.
Ma per ovviare a ciò – lo ammetto io per primo – sarebbe necessario un profondo mutamento culturale ed una riforma organizzativa reale degli uffici giudiziari. Probabilmente la direzione effettiva dell’ufficio affidata ad un manager vero (lo sanno nei Ministeri della laurea in ingegneria gestionale?) e non ad un giudice o ad un cancelliere, che hanno altro tipo di professionalità.
È un fatto, però, che i termini perentori vengono rispettati da milioni di cittadini e di professionisti. Quindi forse potrebbero essere rispettati persino da giudici e pubblica amministrazione: sarebbe un rispetto non tanto di un termine, ma rispetto del cittadino.