Le montagne italiane si spopolano per carenze di infrastrutture e servizi. Per i timori di ripetuti eventi sismici, per le incredibili lungaggini della ricostruzione, – i lavori di ricostruzione sono stati eseguiti solo nel 4% dei Comuni -, per la carenza di adeguate strutture essenziali, come quelle sanitarie, scolastiche, produttive, di telecomunicazioni, di forze dell’ordine.
Il fenomeno più vistoso è la fuga dalle aree appenniniche con un paradosso: le aree interne hanno dalla loro parte un territorio in cui la qualità dell’aria, del cibo, e delle risorse naturali garantisce un benessere, una longevità maggiore, che è difficile riscontrare nelle aree urbane densamente popolate e inquinate.
Il problema reale per chi risiede nelle zone interne è quindi nella carenza di servizi unità ad una caduta produttiva che segna il punto più basso nelle aree colpite dal terremoto che stentano, malgrado le promesse, a dare una svolta alla ricostruzione. Quindi ad una rinascita territoriale.
Il processo di abbandono da parte delle famiglie appare impossibile da arginare in quanto per chi ha un lavoro e i figli, le aree metropolitane offrono oggettivamente di più. Il dire addio alle zone interne ha tuttavia pesanti conseguenze economiche e sociali, perché tutto si indebolisce, come anche le poche attività che rimangono, l’abbandono crea notevoli danni ambientali. Il territorio senza più cura è esposto ad ogni disastro, incendi, problemi idrogeologici, alluvioni, incuria paesaggistica. Dal 2020 terminerà anche l’iniziativa proposta nel documento di Governo: “Strategia nazionale per le Aree interne: definizione, obiettivi, strumenti e governance”, progetto che al di là delle buone intenzioni è stato attuato in minima parte. Il documento dava un forte impulsò al rilancio delle zone montane. Eppure malgrado lo spopolamento, gli studi e i documenti sociologici, economici ed istituzionali, anche la ricostruzione post sisma dei paesi delle aree appenniniche procede in modo così lento da essere un incentivo ad andare via. “Le Aree interne devono essere oggi considerate una “questione nazionale”. Oltre al tema del potenziale di sviluppo di cui dispongono le Aree interne hanno un rilievo nazionale”, si legge nel documento, “per altre due ragioni: i costi sociali determinati dalla condizione in cui versano. In molti casi esse sono caratterizzate da processi di produzione e investimento che, come conseguenza della loro scala e della loro tipologia, generano ingenti costi sociali. L’instabilità idro-geologica è un esempio dei costi sociali che si associano alle modalità attuali di uso dei paesaggi umani nelle Aree interne. Si possono indicare altri esempi altrettanto rilevanti come la perdita di diversità biologica o la dispersione della conoscenza pratica (”saper fare”)”.
Aiuti sono arrivati anche dalla Politica Agricola Comune (Pac) che con cicli di interventi economici ha provato a incentivare la produzione agricola dando sostegni alle imprese. I risultati, tuttavia, non hanno garantito un salto occupazionale e benefici più diffusi tali da rallentare l’esodo.
Il nodo rimane il recupero della funzione produttiva della agricoltura di montagna, quindi non solo produzione, ma la promozione, valorizzazione e commercializzazione di ciò che viene realizzato. A bloccare questo ciclo virtuoso ci sono regole burocratiche, economiche e di legge che andrebbero radicalmente riviste. Un solo esempio, gli allevamenti bovini in montagna, producono meno latte rispetto a quelli intensivi di pianura, ma di qualità indiscutibilmente migliore, grazie ai pascoli, all’alimentazione e alle condizioni ambientali generali. Eppure il prezzo del latte imposto dai grandi gruppi è pressappoco lo stesso, indipendentemente dalla qualità e dalla provenienza. Ecco perché quest’agricoltura di montagna ha bisogno, prima ancora dei sussidi e delle indennità, di strumenti in grado di rendere riconoscibili le produzioni agli occhi di chi fa la spesa. Ora a cercare di muoversi su questo terreno è la Confederazione italiana agricoltori, (Cia) con un progetto molto ben definito e articolato che punta sul rilancio delle sinergie territoriali che ha come perno il ruolo dell’agricoltura. Il primo impegno sarà trovare quei benefici fiscali fondamentali per la ripresa dell’economia. Poi secondo il piano della Confederazione sarà necessario redigere una legge quadro nazionale sull’Appennino. Sono le tre priorità indicate dalle Cia di Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise per rilanciare l’Appennino dopo il terremoto nel Centro Italia. Un’area, quella del cratere, di 8 mila km quadrati, protagonista a Fabriano della quarta tappa del roadshow di Cia-Agricoltori Italiani dedicato al progetto “Il Paese che Vogliamo”.
“Abbiamo preso atto ancora una volta della forte volontà di coesione tra i territori del Centro Italia a tre anni dal sisma”, ha detto la presidente di Cia Marche, Mirella Gattari, nel precisare che “più che aggiungere occorre ridurre le difficoltà che ostacolano la ripresa”. Secondo il presidente nazionale di Cia-Agricoltori Italiani, Dino Scanavino, “risollevare le regioni terremotate, vuol dire rimettere in sesto l’Italia, perché non ci sono mai Comuni di serie A o di serie B e questo soprattutto quando si parla di aree interne e post sisma”.
A tre anni dalla prima scossa, segnala Cia, la ricostruzione è ancora lenta e complicata.
Nelle regioni coinvolte ci sono ancora 797 mila tonnellate di macerie da smaltire su 2 milioni, di cui 463 mila solo nelle Marche. La ricostruzione è ferma al 4% nei comuni praticamente distrutti, con oltre il 50% dei danni. A rallentare la corsa contro lo spopolamento in territori già vulnerabili, sono i ritardi e le inefficienze di una burocrazia rigida e inadeguata all’emergenza. Serve una politica lungimirante che miri a creare le condizioni affinché le persone restino e tornino a vivere nelle aree montane a cominciare dai giovani.
Avere una distribuzione della popolazione più equilibrata porterebbe enormi benefici a tutti, non solo a chi è rimasto, quasi eroicamente, ad abitare i luoghi più spopolati. Si potrebbero prevedere benefici diffusi: prodotti migliori, aree paesaggistiche curate, un incentivo al turismo, alla qualità della vita, più occasioni di lavoro, e un grande beneficio per l’ambiente.