lunedì, 16 Dicembre, 2024
Società

La spoliazione della parola

Che il destino ultimo dell’uomo fosse inscritto nel suo rapporto più intimo con la tecnica (qui intesa come capacità tecnologica assunta generalmente, non nella specifica produzione a sfondo tecnologico) è qualcosa che filosofi e scienziati vanno raccontando dagli albori del XX secolo, quando le aurore delle due grandi guerre, gravide com’erano di istinti crepuscolari, spegnevano la fiaccola del positivismo sorretta dall’uomo dell’800. A ben vedere, il passaggio tra i due secoli non segnava soltanto il punto di collisione e declino di un periodo coeso tutto al progresso dello spirito e le sue manifestazioni, altresì affidava alla verve nazionalistica e romantica dell’Europa il compito di sopprimere la parola a favore di muscolari esecuzioni tecniche, sino allo zenith della bomba atomica.

In Principio era il Verbo, e tale è stato sino al momento di demarcazione tra uomo e macchina, quando nel ruolo di sorvegliante di fabbriche e campi di concentramento la politica assumeva parole che spaziavano dal superomistico eroismo bellico sino alla barbarie del discernimento, quando ebreo e negro esperivano il paradosso di designare per dividere. Morte della parola, in luoghi dove il nome perdeva di senso e si moriva come semplici numeri.

Per converso, l’ascesa dell’economia come sfondo a tutto tondo del nuovo uomo, livellava il diritto a godere secondo linguaggi infinitamente più piatti e funzionali, ed il capitale, novello spirito del mondo, operava secondo lavori di riconversioni e statistiche in cui l’elemento qualitativamente instabile e superfluo dell’uomo come essenza poteva finalmente venir tolto.

Una fabbrica del 900 non era un campo di concentramento, ma in essa ogni manovale valeva di certo un altro. Salari e plusvalori avvelenavano l’uomo e la sua capacità di comunicazione, sicché pure un tentativo diretto di restaurazione al pari di quello comunista non ha saputo preservare l’elemento qualitativamente distinto dell’uomo, il suo essere molteplice, finendo nella distruzione complessiva di milioni di vite.

Questo piccolo trafiletto non potrebbe mai offrire uno spaccato esaustivo di un secolo intessuto di cambiamenti e da esso, semmai, possiamo solo chiedere il tentativo più vasto di un’interrogazione profonda, possibilmente dalla politica odierna.

Politica come restaurazione del molteplice e veicolazione di un plurale secondo logiche che sconfinino il solo ambito della riforma economica, il cui pantano non guarda all’uomo se non nella figura di un astratto, concreto solo al momento di acquistare e far su numeri, siano essi del conto in banca o di un profilo social.

Metanarrazioni che arenano i destini, creano spaccati e spaccature, scindono l’uomo dal suo rapporto proprio con l’ambiente e il prossimo per restituirlo in una tempesta di nevrosi legate al futuro e alla propria ubicazione in esso: l’uomo utopico, laddove utopia significa in nessun posto.

Ecco: restaurarne un senso di destino significa rivalutarne in primis il molteplice dono di proferire, non confondendo questo con la possibilità nuda di parlare, ma rivestire le proprie parole di un senso universalmente condiviso.

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