L’incantesimo francese si è spezzato. Un presidente dimezzato, un sistema elettorale che non emargina più le estreme. Più della metà dei francesi che non votano. Nessuno vuole allearsi con Macron per dargli i 40 voti che gli mancano per avere la maggioranza all’Assemblea nazionale.
Se non vorrà ricorrere a nuove elezioni, se non si azzarderà a governare da solo cercando di volta in volta improbabili maggioranze variabili, Macron dovrà cambiare. Mostrarsi più sensibile ai problemi sociali, aggregare e non dividere. La lezione vale per tutte le democrazie occidentali: di questi tempi non si governa se non si apre ad una maggiore giustizia sociale.
Cinque anni fa Macron era il politico occidentale con maggior potere. Presidente eletto dal popolo con una fortissima maggioranza in Parlamento, Capo dello Stato e di fatto anche del Governo guidato da un fedelissimo. Niente a che vedere con il collega della Casa Bianca che deve vedersela sempre con un Congresso che fa di testa sua e le cui maggioranze labili ogni due anni possono cambiare. All’Eliseo regnava quella che Duverger chiamava “monarchia repubblicana”, una concentrazione di potere democratico e legittimo nelle mani di un uomo solo. Il cosiddetto semipresidenzialismo francese diventato di fatto un presidenzialismo rafforzato. Anche per effetto della legge elettorale
Il doppio turno non premia i moderati?
Il sistema maggioritario a doppio turno è stato sempre considerato una polizza di assicurazione per ridimensionare le ali estreme dello scenario politico e favorire una corsa “centripeta” nel secondo turno.
I risultati dei ballottaggi hanno sconvolto questi schemi. L’area politica moderata che sostiene il Presidente non ha più la maggioranza assoluta e non può formare un governo di diretta emanazione di Macron. Per di più, le aggregazioni estreme, a sinistra Nupes e a destra Rassemblement National, avanzano in maniera consistente. Zemmour era stato eliminato al primo turno. Neogollisti e centristi si accontentano di un 7%
Tutta colpa dell’astensione record del 53,77%? Forse. Ma se metà dei francesi non va a votare significa che la componente più moderata dell’ elettorato non si ritrova in nessuna formazione politica.
Come l’Italia del 2018?
E lascia quindi spazio al voto di protesta. Come successe in Italia nel 2018 con l’exploit dei 5 Stelle e della Lega. Grillo e i suoi cavalcarono il disagio popolare che non trovava più espressione nel Pd, Salvini soffiò sul fuoco delle paure del ceto medio promettendo pensioni facili, tasse piatte e guerra agli immigrati. Si è visto come è andata a finire: i 5 stelle hanno deluso su tutti i fronti e sono ai minimi termini, La Lega è in crisi di identità e di leadership a tutto vantaggio della destra conservatrice di Meloni.
Macron deve correggere la rotta
A Macron mancano una quarantina di voti. Dovrà trovarli altrimenti sarà la paralisi col rischio di nuove elezioni. Esclusa l’alleanza con Marie Le Pen, e visto il no dei Republicains neogollisti, non gli resta che provare a fare breccia nel gruppone di Melenchon. Questo significa correggere la rotta nel metodo e nella sostanza.
Macron è accusato da tutti di arroganza. Dovrà dialogare, includere e non escludere. Ma dovrà dimostrarsi più attento al malcontento che serpeggia anche in un Paese che non bada a spese per i servizi ai cittadini ma che ancora conserva sacche di privilegio.
A differenza dell’Italia del 2018, l’onda che turba la Senna non è solo populista e sovranista. C’è una componente di reale disagio sociale, soprattutto giovanile, che Melenchon è riuscito a suo modo a interpretare. Macron farebbe bene ad aprirsi a queste sensibilità magari provando a dividere Nupes. La lezione però è chiara per tutti: di questi tempi non si governa se non si apre ad una maggiore giustizia sociale.
Fonte foto: Enzo Zucchi – Imagoeconomica