Oggi si vota per le amministrative in quattro capoluoghi di regione, in 22 capoluoghi di provincia e in altri 944 comuni. Gli elettori chiamati al voto saranno 8.831.743, secondo una rilevazione del giorno 8 giugno 2022.
Sempre oggi si vota per i cinque referendum (separazione delle carriere dei magistrati, custodia cautelare, firme per le candidature al Csm, consigli giudiziari, “legge Severino”). Gli elettori, secondo la medesima rilevazione, sono 50.915.402, 4.735.783 dei quali all’estero.
Perché i referendum siano validi la legge prevede che si rechi alle urne il 50% più uno degli elettori; cioè 25.457.702 votanti (tre volte il numero dei votanti alle amministrative).
Il raggiungimento del quorum era l’ultimo dei problemi per gli organizzatori dei referendum “storici”: in un’epoca non lontana i cittadini italiani partecipavano attivamente alla vita politica, vigilavano, votavano con percentuali vicine al 90%. Al referendum sul divorzio – una autentica battaglia democratica, tra due contrapposte visioni della società – partecipò al voto l’87,7% degli elettori. Il NO (quindi i favorevoli a non cambiare la legge Fortuna-Baslini che nel 1970 aveva introdotto il divorzio in Italia) trionfò e le conseguenze politiche e sociali furono immediate: nel 1975 venne promulgata la riforma del diritto di famiglia, che ha inciso radicalmente nei costumi degli italiani ed avviato una modernizzazione della società civile.
Le cose sono cambiate negli ultimi decenni, dove difficilmente i referendum proposti hanno raggiunto il quorum.
È stato un gioco abbastanza facile per gli oppositori dei referendum. È bastato calcolare che il numero dei votanti è sempre più basso (anche al di sotto del 60%: 72,8% alle politiche 2018; molto peggio alle amministrative: alle comunali del 2017 il 60,07%; a quelle del 2021 il record del 54,69%) e che tutti gli “astenuti” per disamore per la politica, per disinteresse, per impedimento, equivalevano in pratica a un voto contrario. Da qui l’invito – che reputo antidemocratico – a non votare: sapendo così che il mancato raggiungimento del quorum si sarebbe potuto contrabbandare politicamente per la determinazione di una maggioranza contraria.
Non è così ed è solo uno squallido gioco da opportunismo politico, che consentirebbe la proclamazione di una falsa maggioranza, perché il mancato raggiungimento del numero legale esprimerebbe soltanto la non validità del referendum e certificherebbe che, comunque, un numero certo di italiani (in maggioranza tra i cittadini che avranno esercitato il dovere civico del voto) avrebbero voluto ciò che esso proponeva.
I referendum sulla giustizia sostengono soluzioni che ritengo sacrosante. Eppure non risolvono nessuno dei problemi della Giustizia.
L’irriformabile “giustizia” non ne uscirebbe granché rivoluzionata dall’adozione delle minime misure che i referendum propongono, né dal progetto di riforma attuale, ridimensionata dai partiti, fino a ridurla ad un mero simulacro.
Il problema, lo ripeto, non è nei giudici, ma nel legislatore, che no riesce ad adottare leggi adeguate. Il giudice applica la legge, può anche darne un’interpretazione estrema, ma rimane nei suoi confini.
La riforma – che ormai sembra essere stata spostata più sul governo dei giudici, che sulla giustizia – non tocca i punti chiave dei problemi. Ad esempio per evitare nel penale vicende di decennali persecuzioni giudiziarie, finite poi con un’assoluzione (ultima in ordine di tempo quella, giovedì passato, dell’ex questore Maurizio Improta e di altri funzionari accusati di sequestro di persona per le presunte irregolarità legate al rimpatrio di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente pakistano).
Né, con riguardo al settore civile, la riforma risolve l’infinita lungaggine dei processi.
La giustizia non funziona perché non funziona la parte pubblica della giustizia, è un mio slogan suffragato dal grande squilibrio tra i diversi attori del processo civile: le parti processuali, che hanno termini rigidi e perentori, che a volte fanno salti mortali per rispettarli; contrapposti ai termini solo ordinatori dei giudici: ed a volte succede che una sentenza o lo scioglimento di una riserva avvenga a grandissima distanza di tempo.
Ma l’organigramma della Giustizia vede circa un 40% di posti vacanti, sia tra i magistrati che nel personale ausiliario e non si può dare riforma della giustizia, senza dare risorse alla giustizia.
Le riforme a costo zero sono solo un’illusione.
Detto questo è comunque necessario, doveroso addirittura, votare oggi ai referendum.
Perché se il non raggiungimento del quorum determinerebbe una inutile falsa maggioranza, la vittoria del si sarebbe invece il segno che il problema della giustizia è avvertito come tale dalla società. Cosa che, forse, potrebbe indurre a fare veramente qualcosa per migliorare la “giustizia”.
E sottolineo “forse” perché in passato esiti di referendum contrari al volere delle rappresentanze sindacali dei giudici (queste sì potenti e politiche, Palamara docet) sono rimasti lettera morta.