mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Considerazioni inattuali

Le rivoluzioni di Falcone

Quando Giovanni Falcone disse “In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere” compì, nel suo percorso già rivoluzionario, un’altra, nuova, particolare rivoluzione: reale eppure metafisica al contempo. Falcone in questi termini spogliò infatti il concetto di mafia del suo alone di ambigua idealizzazioneLo riportò cioè tra i comuni fatti dell’umanità – seppure pieni della loro straordinaria atrocità – cogliendone la pochezza; ovvero privando Cosa Nostra di quell’aura inafferrabile ed ineffabile di potere di cui s’ammantava. Un dato che si coglie ineluttabile nell’ultimo capitolo di Cose di Cosa nostra, il saggio del 1991 che raccoglie le interviste rilasciate da Falcone a Marcelle Padovani. Falcone riteneva lo Stato capace di affrontare i criminali mafiosi, pur accusandolo di sopravvalutarne la forza: in un certo senso di idealizzarne la sostanzaMentre il giudice considerava l’ordinamento mafioso in quanto composto da persone, da comuni criminali, e non vi si riferiva – secondo l’uso comune – come ad un’entità astratta ed incorporea.

LA MAFIA NON E’ L’ANTI-STATO

La contiguità, assunta dall’intreccio tra Mafia e società siciliana, non significa che questo stesso parallelismo tra le due non sia costituito da un insieme di individui che – seppure con un loro specifico codice di uomini d’onore reso tale da leggi ferree che ne regolino la violenza, il valore criminale, la capacità di usare una calibro 38 – non sono diversi da tutti gli altri assassini. E pertanto non sono da considerarsi invincibili, benché stretti dalle braccia di un’associazione che lambisce i confini dello Stato tentando di usufruirne e sfruttarne le falle, piuttosto che identificarsi nei tratti di un anti-statoforma e sostanza che la Mafia non ha mai assunto. Un’altra brillante rivoluzione concettuale di Falcone: l’ordinamento criminale non è anti-statale ma si nutre come un parassita delle “storture dello sviluppo economico” approfittandone e servendosene.

A TRENT’ANNI DALLA STRAGE DI CAPACI

Da quel 23 maggio 1992 sono passati esattamente trent’anni. Da quando l’allora trentacinquenne Giovanni Brusca – che con lo stesso mezzo aveva già ucciso il giudice Rocco Chinnici e la sua scorta – da rodato regista ed esecutore azionò il timer dell’auto bomba che fece saltare in aria i corpi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre ragazzi della scorta: Rocco di Cillo, Antonio Montinari e Vito Schifani. Brusca raccontò sé stesso a Saverio Lodato nel 1999, pochi anni dopo la strage di Capaci, affermando di aver richiesto da sé l’isolamento: celebrandone i risultati e gli effetti della sua collaborazione con la giustizia; “La solitudine mi ha portato a riflettere e a riacquistare la mia lucidità. Proprio questa condizione mi consente di collaborare in modo chiaro e definitivo. Non avere più rapporti con l’esterno è diventato il mio punto di forza”. Assai particolare che uno che mafioso lo è sempre stato “dei mafiosi di San Giuseppe Jato” come suo padre Bernardo, parlasse di perdita e riacquisizione di lucidità – mi dico, mentre leggo. Giovanni Brusca – il cui “padrino” di punciuta fu proprio Totò Riina – dopo 25 anni in carcere dalla sua cattura avvenuta il 20 maggio 1996, ne è uscito esattamente un anno fa.

UN CULTO SFARINATO

“La mia voglia di collaborare non è frutto né di un caso né del calcolo” confessò ù verru – come lo chiamavano, il maiale – a Lodato “Ci tengo a sfatare una leggenda: non ho cominciato a dialogare con gli investigatori – come qualche avvocato ha detto o qualche giornale ha scritto – perché non ero capace di sopportare il carcere duro”. Brusca affermava che lo stato d’animo che l’avrebbe poi condotto a rendersi un collaboratore risalisse infatti a molto tempo prima: “Avevo già maturato un certo disgusto, uno sdegno per come andavano le cose al nostro interno”, all’interno di Cosa Nostra. “Ho vissuto nel culto di Riina, ma lui si è sfarinato ai miei occhi da un giorno all’altro”. Si è sfarinato. Così come per la Banality of Evil della Arendt, che scorgeva i tratti comuni, quasi sciocchi, mentalmente elementari dell’abietto gerarca Eichmann. Come nelle parole di Falcone, come nella sua idea di Mafia: sfarinata, non così solida ed intoccabile, non invincibile come ci hanno sempre fatto credere, fatta di uomini altrettanto fallibili. Un’idea per cui la morte è divenuta fatto ed un fatto rivoluzionario: il fatto di uno, che ha reso immortale la lotta per tutti gli altri fatti, per tutti gli altri morti.

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