Sono oggi 300 mila, ma nel tirare le somme a fine anno, ne saranno molti di più. I “working poor”, i lavoratori poveri messi alle corde dalla crisi, dagli errori di piani industriali, dalle delocalizzazioni, dalle ristrutturazioni, dalla fine delle produzioni. Parallelamente all’industria c’è anche un altro settore, che passa in sordina, ma ha il più alto numero di persone senza più lavoro, è quello del commercio che ha totalizzato 36 mila fuorusciti da negozi e crisi aziendali.
Del resto non è una novità, al ministero dello Sviluppo Economico approdano le crisi aziendali più consistenti, mentre per le realtà di dimensioni più modeste con decine migliaia di lavoratori interessati, i tavoli di crisi sono quelli aperti in ogni regione e a livello territoriale.
Il 2019 resta ancora un anno nero per la disfatta del lavoro e dell’industria, una impennata che vede aperti 160 tavoli di crisi al ministero dello Sviluppo Economico. Aggrappati alle decisioni che verranno ci sono poi i lavoratori dell’indotto che sono i più sfortunati del girone della crisi. Il caso Ilva per dimensioni, costi, effetti sul sistema produttivo e sul Pil Nazionale e sulla politica è unico, e mostra tutte le contraddizioni dell’Italia ex potenza manifatturiera mondiale. Ma non è certo l’unico o il più drammatico.
Il termometro della crisi già questa primavera indicava che sarebbero stati mesi difficili, il primo segnale negativo era arrivato con la cassa integrazione straordinaria, indicatore delle situazioni più gravi e delle ristrutturazioni, salita ad aprile del 78% sullo stesso mese del 2018. Un balzo inatteso e allarmante, situazione critica confermata dalla elaborazioni del centro studi Lavoro&Welfare, nei primi tre mesi del 2019 il ricorso alla cassa (sia ordinaria che straordinaria) ha significato una perdita complessiva di reddito per gli operai superiore a 272 milioni di euro. Forse pochi rispetto a ciò che ha divorato la sola Alitalia in questi mesi e, nonostante i soldi impegnato e finiti al vento, anche in questo caso tra tentennamenti, rinvii vici di sempre nuove cordate imprenditoriali interessate, non si intravede una soluzione a breve termine.
Giusto per mettere in evidenza una mappa dei settori di crisi più importanti, con i lavoratori interessati, c’è il picco più rilevante nel commercio con circa 36 mila addetti, oltre 20 mila nella siderurgia, circa 19 mila negli elettrodomestici, 17 mila nei call center, 15 mila nell’information technology, oltre 9 mila nelle telecomunicazioni, 7mila nell’edilizia, 5mila nell’automotive. Naturalmente tutto questo senza calcolare il vastissimo mondo delle professioni, delle partite Iva, del lavoro precario senza regole e mal pagato, senza tutele.
Dai numeri emerge che il commercio è la grande malata, se guardiamo i dati, lo è più dell’industria, una situazione figlia della perdita economica delle famiglie, e lo stop della spesa ha inoltre portato ad riorientamento delle scelte di consumo verso canali diversi, ossia si acquista sul web, negli outlet, e sempre meno nei negozi che subiscono la concorrenza micidiale dell’online.
“L’impatto sul commercio è stato devastante”, fanno presente alla Confcommercio, “ormai quasi un’attività commerciale indipendente su due chiude i battenti entro i tre anni di vita”. Il cambiamento, tanto annunciato e temuto, è arrivato, così per tutti i settori produttivi nazionali la sfida rimane la stessa quella di 10 anni fa: innovazione, competizione, formazione, ricerca, mercato. Una sfida che non si riesce a vincere, ma forse nemmeno a intraprendere. A vedere spiragli positivi però è Confindustria dell’era Boccia.
“Nonostante la contrazione dei livelli di attività subita negli anni della crisi, e nonostante il crescente diffondersi dello sviluppo industriale verso nuove aree economiche”, puntualizza la Confindustria nel Rapporto 2019, “l’Italia è ancora la settima potenza manifatturiera del mondo”. Un filo ottimismo che si spegne davanti ai tavoli aperti al Ministero, dice circa un terzo comprende aziende a elevato rischio di chiusura, mentre circa un’azienda su cinque è interessata in parte o totalmente da cessazione dell’attività in Italia per delocalizzazione all’estero.
Fortemente critici con il precedente Governo i sindacati Cgil, Cisl e Uil, non solo sui “numeri dei tavoli”, ma sopratutto hanno evidenziato una gestione dei tavoli di crisi unicamente “burocratica e istruttoria” senza affrontare gli aspetti legati al rilancio aziendale e alla riconversione produttiva, con le aziende che rimangono così aggrappate alla cassa integrazione straordinaria, che in questi ultimi sei mesi ha subito un forte incremento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”.