Nel labile confine lambito dalle due parti: etica e giuridica; qui dove ho incontrato Gemma Tuccillo, dal 2017 a capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità: qui dove antepone l’individualità del singolo per dare forza alla sostanza della moltitudine. Quella stessa sostanza che è propria della guida di “un magistrato che ha avuto un raro privilegio, dopo tanti anni di stesura di sentenze ed in questo stesso mondo” nei termini di sé stessa – perché ha dedicato i trenta e più anni della sua carriera all’esecuzione penale adulti prima e a tutto l’ambito della giustizia minorile poi – nell’attuale segmento amministrativo della sua attività: “il privilegio di vedere che cosa accade dopo, quindi di dover sovraintendere all’esecuzione di quei provvedimenti che nel mio passato ho scritto”. Una ragione questa il più delle volte di vero orgoglio “per le scelte alle volte troppo moderne e forse impopolari che spesso ho compiuto e che si sono rivelate vincenti” ma che l’hanno anche indotta a dubitarne: “sovente ho pensato di aver sbagliato; e che se avessi avuto prima esperienza concreta del mondo dell’esecuzione penale, probabilmente avrei rivisto molte decisioni prese in precedenza ed – evidentemente – agito in maniera diversa”.
IL CONFRONTO TRA LA SEGREGAZIONE PENALE E QUELLA PANDEMICA
Ho voluto parlare con Gemma Tuccillo di quegli aspetti spesso posposti e subordinati rispetto alle evidenze pratiche di ciò che si rende noto della vita in carcere: quelli in realtà più rilevanti, attinenti alla sfera umana ed al profilo personale e psicologico del singolo giovane, a quello individuale. Ed a proposito, nei giorni scorsi è intervenuta ad un convegno presso l’Istituto Penale Minorile di Nisida dove ha potuto ascoltare ed analizzare, nella ricerca di un suggerimento dirimente per l’attività quotidiana, “tutti i disagi ed anche le disfunzioni causate dalla segregazione del corpo: guardato a 360 gradi, in tutti i possibili contesti”; traendone inevitabilmente un confronto “tra ciò che accade ai nostri giovani in una situazione di segregazione imposta da una pregressa condotta di violazione penale e coloro che hanno subito un altro tipo di segregazione: quello imposto dalla pandemia”.
LA FRAGILITA’ DEL GRUPPO
Un periodo che secondo quanto rilevato dal magistrato “ha ulteriormente aumentato i fenomeni di devianza giovanile di gruppo”. Ed ha prodotto inoltre questo effetto di rimbalzo “in termini di aggressività da un lato e probabilmente anche di fragilità dall’altro”. Come se i ragazzi avessero bisogno di aggregarsi, spinti da un comune sentire: la traduzione di un vuoto, quello dell’insicurezza di sé, della debolezza del singolo che “per trasgredire penalmente necessita dell’unione della banda” seppure estemporanea, fragile quanto i suoi componenti, soltanto apparentemente più forti; quale probabile effetto del post lockdown e della collettiva sensazione di disagio dei più giovani. È una dinamica questa che in effetti c’è sempre stata ma “se prima si parlava di baby-gang – un termine che io non preferisco perché improprio – quasi a determinare una organizzazione con un capo e dei gregari” dunque esegetica di una struttura “le azioni devianti di oggi non hanno un progetto né un capo” come se nell’incontro subitaneo si decidesse estemporaneamente la malefatta, mentre appunto “prima perlopiù la criminalità minorile di gruppo, in concorso, aveva un sapore di maggiore strutturazione”. La mancanza di struttura, figlia della fragilità e producente a sua volta una ancora maggiore aggressività che si realizza nella formazione del branco. Una volta erano effettivamente “molto più ricorrenti le azioni del singolo: ad agire erano il rapinatore, lo scippatore – adesso s’avverte come un bisogno di mutuo sostegno per compiere il reato: fanno tutto insieme” ma senza che ci sia necessariamente una banda, un’organizzazione rispetto al passato.
L’ORIENTAMENTO
“Il nuovo ordinamento penitenziario minorile punta espressamente alla massima individualizzazione del trattamento: non ce ne sono di indifferenziati, ciascun giovane ha un programma di trattamento tagliato nel rispetto delle sue aspirazioni, inclinazioni e talenti” e nel piano un’importanza primaria è data all’istruzione “in quanto tantissimi dei ragazzi che entrano nel circuito penale non hanno completato la scuola dell’obbligo e per i giovani stranieri è fondamentale l’alfabetizzazione, cui devono accompagnarsi attività di carattere sportivo e culturale: abbiamo il teatro in quasi tutte le strutture”. Con tutte le condizioni e le attività che possano fattualmente fornire loro “un orientamento alla loro portata, al quale hanno accesso esattamente come tutti gli altri. Infatti abbiamo firmato di recente un protocollo in tal senso con il Polo Universitario Penitenziario, già sottoscritto dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria ed esteso anche ad i nostri istituti penali.” E una grande aspirazione di Gemma Tuccillo è che “alla fascia di età di detenuti contenuta tra i 18 ed i 25 anni siano offerte analoghe opportunità, sia avendo commesso il reato da minori che da maggiorenni.”
IL RICONOSCIMENTO MORALE DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA
Mi sono sempre chiesta se i ragazzi fossero in grado di riconoscere l’errore commesso non soltanto dal punto di vista più evidente, tecnico e superficiale stricto sensu rappresentato dalla legge, ma anche da quello etico-morale; per Gemma Tuccillo “questa è la grande sfida di oggi” ed un passaggio fondamentale “può essere quello della giustizia riparativa: quindi di un percorso che metta l’uno di fronte all’altro in un atteggiamento dialettico di ascolto ed accoglienza tra autore e vittima; con uguale importanza e soprattutto rilievo per i diritti della vittima e per la sua centralità nel procedimento penale, ma anche come percorso di risocializzazione per una migliore inclusione del minore e dell’autore dell’offesa, ancor di più per il processo di maturazione e di responsabilizzazione che verrà”. Ed a proposito della espressa volontà di ripartire dalla vittima, “Il momento riparativo è molto importante, perché offre anche all’autore dell’offesa la possibilità di ripensare il proprio vissuto: perché non di rado nel mettersi di fronte a sé stessi, ci si rende conto che quell’agito deviante è in realtà un rigurgito di soprusi o sopraffazioni subite”; nella dinamica della coazione a ripetere è molto più consueto che infatti a mettere in atto una determinata offesa, sia chi quell’atto lo ha precedentemente subito. “E questo momento di riparazione in cui l’autore tocca con mano il danno fatto all’altro, il disagio ed il dolore arrecatogli, diviene una risoluzione catartica ed un’occasione di grande formazione e maturazione che mai più lo porrà nelle condizioni di ripetere ciò che ha fatto – che possa inoltre risarcire la vittima anche sotto il profilo emotivo. La giustizia riparativa è un momento di incontro tra chi ha recato l’offesa e chi l’ha ricevuta e non si interroga sui rispettivi perché dell’atto compiuto e subito. Inoltre molto spesso coinvolge l’intera comunità”.
L’UGUAGLIANZA DI GENERE
Le ho domandato se avesse mai constatato una differenza, seppure comportamentale, tra i due generi. Ci si aspetterebbe che in carcere, queste tra ragazzi e ragazzi siano le prime evidenze. Ho ottenuto una risposta inaspettata, rispetto alla consuetudine, quanto limpida e materna: “Non c’è una vera differenza. Ne farei un discorso di percentuale diversa: ne ho viste molte di meno. Però sostanzialmente quando la ragazza pone in essere un reato non lo fa in maniera diversa dal ragazzo”. Nel suo percorso non ha riscontrato alcuna effettiva differenza tra i due sessi dunque – “Ho visto omicidi commessi da ragazze di una violenza assolutamente paragonabile se non addirittura maggiore rispetto al sesso opposto. Non ho mai assistito ad una modalità diversa, solo il numero lo è; del resto abbiamo una popolazione femminile talmente bassa: saranno una quindicina complessivamente in tutta Italia le detenute minorenni in questo momento” e non se ne domanda la ragione: forse perché se non c’è la differenza – tra i due sessi, non sussiste nemmeno il perché di tale disparità numerica.
UNA CONCRETA PROSPETTIVA DI FUTURO
Il ragazzo perciò, maschio o femmina che sia, deve fidarsi dell’interlocutore: “Nella struttura tanto più si è credibili, tanto più il giovane seguirà il trattamento. E non in quanto obbligato a farlo ma perché cosciente che noi ci crediamo veramente, crediamo nelle sue potenzialità” insieme all’attenzione delle istituzioni “che per loro deve essere concreta – senza la sensazione di essere osservati come un fenomeno ma in quanto individui da reinserire nella comunità concretamente, rendendoli realmente consapevoli dell’esistenza di una seconda possibilità”. Una possibilità di vita, di lavoro, di riscatto riscontrabile nelle sue parole “In questo ultimo periodo ho firmato due accordi con la Lega Navale e con la Marina Militare per i mestieri del mare – perché abbiamo sperimentato il piacere di svolgere questo tipo di attività per i ragazzi e molti di loro sono poi stati assunti; una volta scontata la pena, sono rimasti all’interno di queste organizzazioni presso le quali avevano svolto un percorso obbligatorio di trattamento”. L’intento è che si elimini il successivo disorientamento e che “l’inciampo si trasformi in un’opportunità per raggiungere un traguardo. Il mio sogno: che i ragazzi entrati nel circuito penale possano uscire da questo percorso formativo realmente forti per affermare la loro determinazione ad intraprendere una strada della legalità ed allo stesso modo – sebbene sia doloroso rilevarlo – dare un’opportunità a quelli che se non fossero entrati nella struttura non l’avrebbero avuta affatto”.
TOGLIERE IL MARCHIO
Credo che il limite più comune ed al contempo più intollerabile della nostra società si esprima probabilmente nella tendenza ad etichettare tutto e tutti – ed ancor peggio, a marchiarli; è difficile che uno sbaglio dunque sia visto come un’opportunità di rinascita: sembra sia sempre destinato a restare un marchio di sporco che è quasi impossibile lavarsi di dosso. “E l’ingresso nel circuito penale è un’etichetta ancor più difficile, ed il nostro lavoro è proprio quello di rendere questi ragazzi forti e sicuri che quest’etichetta se la possono strappare, dimostrando a tutti, e prima di ogni altro alla propria famiglia – che molto spesso è una famiglia normo-costituita verso la quale provano un fortissimo senso di vergogna, molto più forte di quello avvertito al cospetto della riprovazione generale – che possono prendere un diploma anche nel corso dell’esecuzione penale. Questo rappresenta una grandissima forma di riscatto: una forte dimostrazione verso il genitore ed il coglimento di un’opportunità che forse all’esterno il giovane non avrebbe raggiunto” utilizzando tutto il suo tempo “perché non sia tempo perso, vuoto o sprecato” ma perché sia il suo, del singolo, delle sue facoltà individuali: in quanto soggetto e non oggetto di quello stesso tempo in cui vive.