L’idea in un certo senso consolatoria che la sofferenza significhi intelligenza e che la supposta intelligenza non consenta mai a chi ce l’ha di considerarsi del tutto felice – è un po’ il filo conduttore mai contestato che lega l’emotività e la razionalità insieme e ne cinge i margini tra il passato ed il presente contestualmente. “Quando appare una grande personalità chiedetevi innanzitutto dov’è il suo dolore” scrisse Léon Bloy – confermando neanche troppo implicitamente il fatto che il vuoto identitario sia scevro di sofferenza.
LA MENTE EMOTIVA
Ecco, non credo che questo voglia dire che per rendersi pieni, per riempire lo spirito, occorra dover soffrire, no. Il dolore, se compreso e superato certo, migliora l’individuo: ne arricchisce la sostanza – ma la vera ricchezza, fonte e al contempo conseguenza d’intelletto, risiede nella capacità di provarlo ed accoglierlo: nell’emotività della sua mente. Perché “con la sola logica non si può scavalcare d’un salto la natura!” secondo Dostoevskij infatti “la logica prevede tre casi, mentre ce n’è un milione.” A sottolineare che l’intelligenza razionale non possa significare alcunché da un punto di vista elettivo.
LA SENSIBILITA’ SI AUTO-LIMITA
Eppure, alla più alta delle capacità intellettive, alla sensibilità non è concessa la possibilità del dominio assoluto e pratico: poiché per sua natura, per l’eccesso dell’intelligenza emotiva che la compone, lo auto-limiterebbe. Non accetterebbe di ergersi a tiranna, né a dominatrice assoluta proprio in virtù della sua empatia – o entropatia, per dirla con Edith Stein – perché per mezzo della stessa, riconosce sé stesso e l’altro in toto. Mentre il vero dominatore di Dostoevskij applica e pretende unicamente il riconoscimento di sé; infatti egli “al quale tutto è permesso, saccheggia Tolone, compie il macello di Parigi, dimentica un’armata in Egitto, spreca mezzo milione di uomini nella campagna di Mosca e se la cava con un gioco di parole a Vilna; e a lui, dopo morte, innalzano statue, e quindi tutto gli è permesso.” Conclude Fëdor “No, uomini siffatti, si vede, non sono di carne ma di bronzo!”
LA DISUMANITA’ DEL DOMINIO
La sua disumanizzazione del dominio comporta la mancanza di capacità emotiva, in effetti; e l’applicazione di un’unica soluzione, poiché incapace appunto di vederne altre: l’unica che conduca, ancora e per l’ennesima volta, al riconoscimento immediato ed assoluto di sé. Del solo dominatore, che per tutti, può tutto. E cito ancora il filosofo russo, in Delitto e castigo: “Non per aiutare mia madre ho ucciso, sciocchezze! Non ho ucciso per farmi, acquistata ricchezza e potenza, il benefattore dell’umanità. Sciocchezze! Ho ucciso semplicemente per me stesso, ho ucciso, per me solo” per confermarsi ed immolarsi alla sua sola logica, vuota di altre possibilità se non quelle, spietate, che non sanno entrare en pathos – letteralmente “dentro il sentimento” – e continua perciò “Avevo allora bisogno di sapere e di sapere al più presto se io fossi un pidocchio, come tutti, o un uomo. Avrei potuto passar oltre o non avrei potuto? Avrei osato chinarmi e prendere, o no? Ero una creatura tremante o avevo il diritto.”