“Più che una proposta, mi sembra una provocazione per aprire un dibattito. Ma certamente non è la soluzione giuridica e tecnica più adeguata al problema”. A parlare è il professor Stefano Aterno, docente di diritto penale dell’informatica alla Lumsa.
L’esperto riconosce l’importanza del tema, ma è convinto che l’idea del deputato renziano Luigi Marattin di una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a presentare un documento d’identità sia addirittura controproducente.
Professore che idea si è fatto di questa proposta?
“Non è la prima volta che la politica cerca di intervenire in questo ambito. Più che una proposta, mi sembra una provocazione per aprire un dibattito. Ma certamente non è la soluzione giuridica e tecnica più adeguata al problema”.
Per quale motivo?
“I social sono piattaforme gestite all’estero. Se dovesse andare in porto una legge del genere, riguarderebbe solo gli italiani e, peraltro, non raggiungerebbe l’obiettivo perché esistono delle strade per bypassare il sistema e continuare ad agire come è avvenuto fino ad oggi”.
Dunque ci dobbiamo rassegnare a una Rete senza regole, libera di “esagerare”?
“Sono necessari dei distinguo. Innanzi tutto occorre dire che molti “haters” (gli odiatori seriali, ndr) si identificano con il loro nome e cognome reale, nel senso che non usano profili fake. Questo è stato rilevato anche dalle statistiche delle forze di polizia. Lì dove quelle che lei ha definito esagerazioni sfociano in reati si può intervenire. Tante indagini di polizia giudiziaria sono nate in questo modo e si sono concluse con l’accertamento delle relative responsabilità”.
E, invece, nei confronti di chi usa profili falsi come ci si può difendere?
“Anche in questo caso ci sono degli strumenti. C’è, però, una scelta da fare a monte…”.
Quale?
“Dobbiamo decidere se vogliamo rinunciare o meno a quella parte di anonimato che la Rete ci consente. L’alternativa è quella di seguire l’esempio dei Paesi diversamente democratici, dove, in realtà, si registra un forte tentativo di controllo della Rete. Eppure anche lì, ricorrendo a stratagemmi, le opposizioni riescono a dialogare o a creare profili”.
Allora come possiamo uscire da questo tunnel?
“Dobbiamo, innanzi tutto, porre il problema dell’etica nell’uso della Rete. Spesso mi rendo conto che le persone utilizzano i Social e, più in generale, le nuove tecnologie senza sapere come funzionano. Ad esempio molti, anche tra le stesse vittime degli haters, non sanno che certe azioni non si possono cancellare. In conclusione il tema va posto, ma la soluzione non è quella di imporre l’invio della carta d’identità per l’apertura di un profilo. In questo caso, infatti, forniremmo ad un soggetto straniero la certezza che un certo profilo corrisponde ad una persona fisica con determinate caratteristiche. Daremmo in pasto ad uno sconosciuto un tesoro di informazioni fondamentali per la profilazione”.
Possibile che non c’è altra strada?
“Bisogna fare la voce grossa con le piattaforme, convincendole, non costringendole, a fornire le informazioni in loro possesso: l’indirizzo ip di un determinato post o di un messaggio rimane per un certo tempo presso il social network. Per reati gravissimi come il terrorismo o che hanno a che fare con la criminalità organizzata le piattaforme forniscono i metadati. Si potrebbe avviare una interlocuzione per far rientrare in questo ambito anche i reati di odio, vista la loro peculiarità. Questa potrebbe essere una soluzione accettabile”.