Dare priorità al lavoro per frontegguar rincari e inflazione per imprese e famiglie.Servono occupazione stabile e buste paghe più pesanti. Così si assicura anche una previdenza in equilibrio e uno stato sociale efficiente.
La guerra in Ucraina con le sue immense sofferenze, distruzioni, quotidiane angosce e rischi per il mondo, ha posto in secondo piano le molte notizie negative che si registrano in Italia.
Economia in affanno
Il Paese è alle prese con una situazione di difficoltà generale che si annuncia lunga e senza facili vie d’uscita. I rincari stellari di materie prima ed energia, una inflazione da anni 70, l’allarme del caro gasolio che si abbatte sugli autotrasportatori, le spese per gas e luce sono insostenibili per molte famiglie e imprese. C’è anche l’impossibilità di attuare rapide politiche energetiche per ridurre i costi. Le attese riforme come quella previdenziale sono ancora al palo, mentre quella del fisco ha segnato una clamorosa rottura sulla revisione degli estimi catastali, all’interno della maggioranza di Governo.
Precari e inoccupati
Nel contempo gli ultimi dati sull’occupazione fanno registrare l’aumento di impieghi a tempo determinato, con il progressivo distacco dei giovani verso la ricerca di una occupazione qualificata rispetto alle loro aspettative. Le imprese offrono lavoro ma non ottengono risposta. C’è sempre meno interesse per un lavoro che non risulta stabile e pagato in modo non soddisfacente. Colpa delle troppe tasse in busta paga che poi vanno ad incentivare la spesa per un assistenzialismo improduttivo. I temi dello sviluppo, dell’occupazione e previdenza segnano un momento di crisi del Paese su cui non si può sorvolare. Senza persone che lavorano non possono esserci risorse per lo stato sociale, per la previdenza e nemmeno per le tante forme di welfare che lo Stato elargisce.
Più fondi all’assistenza che per l’occupazione
L’Italia è alle prese con un dato cronico: spende più per il sostegno sociale che per le politiche attive del lavoro. Semplificando per arrivare al nocciolo della questione, si danno più soldi e incentivi per la “salvezza” di inoccupati rispetto a quanti pur avendo un impiego non riescono a migliorare le loro condizioni di lavoro.
I dati dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche ricorda che il 45% dei percettori sono lavoratori poveri. Il reddito di cittadinanza rappresenta un’ancora per 1,8 milioni di famiglie, – ma questo il punto -: il 46% dei percettori risulta occupato con impieghi tali da non consentire loro di emergere dal disagio. In altri versi bisognerebbe dare più fondi per migliorare il loro lavoro e le loro retribuzioni. Lo spiega Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, che osserva: “Si potrebbe dire che basterebbe migliorare le condizioni retributive e lavorative di questi lavoratori per quasi dimezzare immediatamente l’attuale numero dei percettori del Reddito di cittadinanza”.
Meno sussidi e più buste paga
Una indicazione preziosa per comprendere come sia necessario un cambio di rotta che purtroppo non si intravede all’orizzonte. La quasi totalità della spesa pubblica è indirizzata verso sussidi e assistenzialismo, quando invece necessiterebbe di una seria revisione della propria organizzazione del lavoro e dei propri modelli produttivi. Migliorare e incentivare il lavoro sarebbe una straordinaria scossa positiva per i giovani e per il Paese. Avrebbe inoltre un effetto importate sul sistema previdenziale che vive un grave stato di disequilibrino nel rapporto tra occupati e pensionati. Con questi ultimi che aumentano e i lavoratori che diminuiscono.
Politica e “vita reale”
Un sistema previdenziale carico di squilibri dovrebbe imporre decisioni coraggiose e lungimiranti. Una preoccupazione che emerge in modo chiaro dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, con l’attenta analisi del presidente Alberto Brambilla che ricorda come da troppo tempo ci sia un forte scollamento tra la classe politica e la “vita reale” del Paese. Una distanza certificato dai dati economici e sociali. L’Italia è ai primissimi posti per spesa sociale ma, al contempo, detiene il record per l’aumento della povertà assoluta e relativa. “E, poiché gran parte della spesa e del debito se ne va per sussidiare una bella fetta di popolazione”, ricorda Brambilla, “non c’è da stupirsi se gli effetti finali di questa politica del consenso sono una forte mancanza di lavoratori, una scarsa organizzazione del lavoro, un’evasione di massa e una pauperizzazione”.
Più pensionati che occupati
Sul tema pensioni si registra ancora una situazione di stallo perché il Governo vuole prima valutare lo stato delle risorse per poi dare risposte alle richieste dei sindacati. C’è tuttavia da chiedersi, può reggere un sistema previdenziale dove calano i lavoratori e salgono i pensionati? I numeri ci dicono che non è più possibile un tale squilibrio e che presto si arriverà ad una situazione di rottura. Una frattura che vale anche per tutti i fondi che lo Stato investe nell’assistenza. Nel 2020 la spesa per pensioni è stata di 234 miliardi, per assistenza sociale 144,76 miliardi, per quella sanitaria 123,5 miliardi. Costi che vanno uniti a quelli per il welfare degli enti locali e il sostegno al reddito, una spesa, segnala Itinerari previdenziali, calcola sui 510 miliardi, pari al 54% dell’intera spesa pubblica. Ma c’è dell’altro, osserva Alberto Brambilla, “che per pensioni e assistenza sociale gli enti pubblici hanno erogato circa 90 miliardi di prestazioni esenti da tassazione”.
La svolta necessaria
Pensare di uscire dalla crisi senza riforme è illusorio. Ci attendono mesi difficili. La guerra in Ucraina porterà un impatto notevole sull’economia italiana. Dovremmo ridiscutere i nostri rapporti diplomatici e commerciali con la Russia. Subire il contraccolpo delle sanzioni, e dell’accoglienza dei rifugiati. Mettere in campo ogni iniziativa di solidarietà e di impegno per la pace. Dare risposte ai lavoratori e creare condizioni di migliori opportunità per i giovani. I problemi non mancano ma le soluzioni sono ancora possibili e per fortuna tutte nelle nostre mani.