Un progetto tutto italiano che si sta rivelando uno strumento valido per ingressi legali. Con quali procedure?
È un’originalità italiana in partenza ma sta diventando europea. Il primo protocollo che abbiamo sottoscritto insieme al Ministero dell’Interno, al Ministero degli Esteri, la Federazione delle chiese evangeliche e la Tavola valdese è stato nel dicembre 2015 per chiedere la possibilità alle organizzazioni sottoscrittrici di poter far arrivare in sicurezza con un visto regolare d’ingresso 1.000 rifugiati siriani che erano in transito in Libano. Dal 2015 ad oggi abbiamo rinnovato diversi protocolli: per l’Etiopia con la conferenza episcopale italiana e la Caritas italiana, per l’Afghanistan che ancora non è partito e un ulteriore protocollo importantissimo lo abbiamo fatto per la Libia.
Qual è la maggiore difficoltà che incontrate per l’attuazione di questo progetto?
Ci sono delle procedure che devono essere attuate perché venga garantita la sicurezza prima della partenza. Le associazioni individuano le persone e noi ci assumiamo l’onere economico dell’accoglienza, del viaggio e del percorso d’integrazione in Italia almeno per anno. Qualche difficoltà c’è nel trovare immediatamente tutti i luoghi di accoglienza, però, da quando sono partiti i corridoi umanitari, abbiamo notato che c’è una certa generosità da parte di molti cittadini italiani, oltre che di associazioni, parrocchie e religiosi. Questo è un aspetto importante a mio avviso. Persone che mettono a disposizione per un anno o due in comodato d’uso gratuito una casa. È come se sentissero un debito nei confronti di tanti bambini e tante donne che sono nella sofferenza della guerra.
Che problemi incontra chi entra attraverso i corridoi umanitari?
Le persone che arrivano attraverso questi corridoi non hanno il riconoscimento di rifugiati. La nostra intenzione era aprire una via nuova per i richiedenti asilo. Prendono barconi terrificanti e si mettono in mano ai trafficanti di uomini, pagando tanti e soldi e rischiando di morire. Abbiamo pensato di creare una via legale che permetta a queste persone di chiedere asilo al momento del loro arrivo e su 3.800 persone arrivate in Italia il 99,4% sono stati tutti riconosciuti rifugiati con asilo politico pieno. Per la gran parte si tratta di siriani, eritrei, yemeniti e sudanesi. Qualcuno ha avuto la protezione sussidiaria che rientra sempre nel contesto dell’asilo politico e qualcuno ha avuto la protezione speciale per motivi umanitari.
Il diritto all’asilo politico è ancora limitato a chi fugge da dittature, guerre e violenze. In quali ambiti andrebbe esteso?
Si. Non sono, ad esempio, riconosciuti a livello internazionale e a livello giuridico i rifugiati ambientali e questo è un dramma perché si tratta di persone che scappano da una situazione di gravi difficoltà ambientale. Pensiamo al tema del Sahel, dell’Africa e della desertificazione: queste persone vengono considerate dei profughi economici, ma in realtà sono persone che non hanno più la possibilità di coltivare la terra perché il deserto avanza. Le persone che scappano e vengono anche nel nostro territorio non hanno mai una sola motivazione ma le ragioni sono miste, come la povertà che non viene riconosciuta.
Per l’estensione del concetto di rifugiato bisognerebbe intervenire a livello internazionale magari con qualche provvedimento delle Nazioni Unite oppure un singolo Paese lo può fare?
Sicuramente è necessario intervenire a livello internazionale perché è la convenzione di Ginevra che dà una definizione giuridica dello status di rifugiato, ma l’Europa complessivamente negli anni ha allargato questa definizione, inserendo anche persone che fuggono da situazioni di violenza generalizzata, non propriamente rifugiati. Ci potrebbe comunque essere un ulteriore allargamento da parte della UE. L’Italia, che si trova ad essere un Paese affacciato sul Mar Mediterraneo, ha avuto negli anni degli afflussi massicci di situazioni che non coinvolgevano solo rifugiati politici e ha dovuto concedere dei permessi di soggiorno per motivi umanitari che in qualche modo comprendono un discorso più ampio legato al tema della protezione internazionale. Ma ci sono delle difficoltà a livello internazionale per ridiscutere la definizione di rifugiato.