venerdì, 22 Novembre, 2024
Il Cittadino

Le tasse del cittadino e quelle del suddito

Il momento in cui l’italiano è indubbiamente un suddito è quello dei rapporti con l’Erario.

Devo dire, con obiettività, che la materia agevola questa retrocessione del cittadino. Lo stesso linguaggio lo attesta: lo Stato esige una “imposta”, cioè un pagamento imposto col suo potere, una “imposizione” che deriva dalla sua stessa funzione. La legge attribuisce allo Stato una serie di poteri che nella nostra società sono sempre più coercitivi: più lo Stato è incapace di fronteggiare l’evasione fiscale, più inasprisce le leggi.

È un concetto che ho già espresso più volte e che ribadisco anche in questa materia: stabilire una pena più dura non ha mai, nella storia, eliminato un reato. Fateci caso: più uno Stato è debole, più severe saranno le pene. Così dare maggiori poteri al fisco ed aumentare le sanzioni verso il contribuente, non determina maggiori entrate. Chi deve evadere le imposte lo farà sempre – magari con modi e mezzi più raffinati – e neppure lontanamente si asterrà dal farlo pensando alle conseguenze se venisse colto in fallo.

Discorso che ci porterebbe lontano dal tema che mi prefiggevo: che non è quello di parlare del giusto contrasto all’evasione fiscale, quanto quello di evidenziare lo stato di soggezione – fino appunto alla sua considerazione come suddito e non come cittadino – in cui si trova una persona normale nella sua funzione di contribuente.

Lo Stato moderno, in una socialdemocrazia come indubbiamente è la nostra, nella quale il welfare ha un ruolo rilevante (e da cittadino italiano sono orgoglioso del sistema sanitario nazionale per l’assistenza che offre a tutti: è un privilegio non da poco, credetemi), necessita di grandissime risorse. Queste derivano in gran parte dalla finanza internazionale: non chiedetemi come funziona, ma il debito pubblico che ogni Stato ha, determina ricchezza, aumenta sempre e non viene azzerato mai: almeno col mezzo del pagamento; poi le concessioni di politica estera – come “saldo” non dichiarato del prestito – sono altra cosa.

In grandissima parte le risorse, però, derivano dai contributi dei cittadini: «tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Principio sacrosanto, affermato dall’art. 53 della Costituzione, il quale stabilisce anche il giusto criterio di progressività. Che si basa sull’unico concetto di economia politica (materia di studio persino per un leguleio come il sottoscritto) che ho veramente capito: quello dell’utilità marginale del denaro per cui il valore di dieci euro è diverso a seconda del reddito: più questo è basso, più quel valore cresce, perché quei dieci euro divengono necessari per acquisti essenziali. Così che mi fa veramente rabbia che lo Stato nei confronti di alcune categorie di contribuenti – secondo l’Istat al di sotto della soglia di povertà – dopo avere comunque prelevato le imposte sul reddito (23% fino a € 15.000 lordi: fanno € 3.450; rimangono € 11.550 annui, € 962,5 per ciascuno dei dodici mesi dell’anno, con l’Inps da pagare) riesce a togliere un altro venti per cento circa con l’Iva sugli acquisti.

Se tale prelievo ai più poveri è vessatorio ed incide sui consumi di base, il sistema nei confronti di un “benestante”, specie se partita Iva, è addirittura persecutorio: con la tortura di adempimenti fiscali pressoché quotidiani (90 l’anno, 2 ogni settimana, stima l’ordine dei Commercialisti) e con una voluta non certezza della regolarità fiscale che nessuno mai potrà realmente attestare.

Così come costituisce una barbarie il sistema giustizialista che nella materia fiscale trova la sua massima applicazione, con l’affermazione della presunzione di colpevolezza del contribuente, da cui si muove qualsiasi contestazione. Il contribuente così è sempre evasore, le presunzioni dì legge sono sempre a suo danno e sulla base delle stesse – quindi senza necessità dì prove reali – si determinano accertamenti e sanzioni.

Non a caso più della metà del contenzioso civile pendente in Cassazione è in materia tributaria, alimentato da un terzo abbondante dei nuovi ricorsi.

Col fisco è difficile pagare, perfino all’Agenzia delle Entrate.

Ci ho provato personalmente e in questi tempi in cui mi faccio riconoscere dal telefono e, in un secondo ho eseguito il pagamento, avrei potuto farlo solo con assegni bancari (che non uso da tempo) o con assegni circolari. Da rimanere allibiti, anche perché proprio la (pseudo) lotta all’evasione ha portato alla demonizzazione del contante. Che è pressoché scomparso spontaneamente, soppiantato dai pagamenti in forma elettronica.

Al punto che, se mi fidassi nello Stato (non mi fido) avanzerei una proposta, autorizzandolo a prelevare da subito i 2/3 di qualsiasi mia entrata, guadagnando esso liquidità ed interessi; calcolando esso stesso e trattenendo tutto ciò che devo pagare per imposte statali e locali e per contributi pensionistici, con esonero da parte mia dì ogni adempimento, e con l’impegno dì ricevere entro i primi due mesi dell’anno successivo un rendiconto chiaro e comprensibile (!) e la restituzione delle somme che sono sopravanzate.

Risparmierei almeno commercialista e le inevitabili sanzioni..…

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