Lo speciale rapporto che lega Italia e Libia è riemerso nella Conferenza di Parigi, in vista delle elezioni di dicembre a Tripoli. Ricostruiamo con una serie di articoli le origini delle relazioni tra i due Paesi, inserendole nel clima politico e internazionale del primo Novecento, segnato dal nazionalismo che le imprese coloniali avrebbero reso sempre più aggressivo.
L’impresa libica era invocata da importanti settori dell’opinione pubblica e del Paese. Innanzitutto le grandi industrie metallurgiche, meccaniche e chimiche. Nonostante la grave crisi del 1907 tra l’inizio del secolo e il 1914, alla vigilia della Grande Guerra, la produzione industriale cresceva in media del 12 per cento all’anno. L’Italia era ancora un Paese sostanzialmente agricolo ma al Nord cominciava a delinearsi quel processo di industrializzazione che conoscerà nel ‘900 diverse fasi e sviluppi multipli. Sono anni in cui si formano cartelli e trust che puntano al controllo dei prezzi e della produzione. I maggiori istituti di credito esercitano un ruolo di egemonia e smaniano per espandersi . Si comincia a parlare dell’interesse del Banco di Roma verso la sponda africana del Mediterraneo. E – con l’interesse dell’istituto bancario – di un’attenzione, o quanto meno una non belligeranza, dei cattolici (allora ancora assenti da un coinvolgimento organico nella vita politica) in caso di un futuro conflitto.
Poiché il Banco di Roma era sorto per iniziativa di elementi aristocratici clericali e aveva esteso attività in Abissinia, Marocco, collegando la sua espansione finanziaria con la politica del Governo italiano nel Mediterraneo, pareva ora conseguente il sostegno a un’impresa in Libia.
L’incaricato d’affari russo presso il Vaticano, principe Volkonski, così scriveva al suo Ministero degli Esteri il 10 ottobre 1911: “L’importanza della funzione che questa banca ha nel conflitto in corso è talmente evidente che viene perfino sopravvalutata dall’opinione pubblica di qui, che arriva ad affermare che la guerra è stata provocata proprio dai dirigenti della Banca di Roma”.
Ma c’è ancora un altro elemento a fare da sfondo al conflitto: l’enorme riserva di braccia che i campi e le fabbriche non riescono ad occupare. Sono gli anni dell’emigrazione verso altri Paesi europei e le Americhe. Milioni di persone in questo periodo lasciano il Paese: basterà pensare che, solamente nel 1913, partirono 900.000 migranti.
È in questo contesto che si fa largo un vento nazionalista subito intercettato da alcuni intellettuali insofferenti alla politica “moderatrice” giolittiana , sospettosi dell’attenzione da questi rivolta alle masse proletarie e desiderosi di “imprese eroiche”. Giovanni Giolitti non cadde mai alle tentazioni epiche di una certa retorica militaresca. In un discorso tenuto al Teatro Regio di Torino, il 7 ottobre 1911, disse sì che la guerra era “una fatalità storica” ma fece anche capire che era l’ultima occasione per accedere all’altra sponda del Mediterraneo, dove Francia e Inghilterra avevano già occupato tutti i territori disponibili, dal Marocco all’Egitto. Certo, anche l’Italia rincorreva le sue mire imperialistiche che però, nel rigore storico, vanno collocate nelle scelte del tempo, dove tutte le potenze inseguivano le proprie ambizioni espansionistiche nel continente nero.
Intanto Gabriele D’Annunzio soffia sul fuoco, scalda con le sue parole d’ordine la borghesia rimasta esclusa dai benefici della rivoluzione industriale e celebra le imprese della nazione e dei suoi “figli migliori” nelle “Canzoni delle gesta d’Oltremare”.
Anche il “Corriere della Sera”, che ospita gli scritti del Vate, seppure con accenti diversi, riprende le ragioni della stampa più interventista e appoggia Giolitti nelle sue intenzioni nazionalistiche.
È ora di rompere gli indugi. La situazione internazionale pare favorevole. (1-continua)